Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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M’infilai gli stivali e uscii. Faceva freddo.

«Henry!» chiamò Tom.

«Che succede?» dissi, girando l’angolo.

«Ero fuori a controllare le trappole, quando mi sono imbattuto in Neville Cranston, un mio vecchio amico. Lui passa l’estate a San Diego e l’inverno a Hemet; era appunto diretto a Hemet, perché quest’anno è partito in ritardo.»

«Peccato» commentai cortesemente.

«No, stammi a sentire! Ha lasciato da poco San Diego, non mi ascolti? E sai cosa mi ha detto? Che il nuovo sindaco è Frederick Lee!»

«Cosa?»

«Il nuovo sindaco di San Diego è Lee. Neville dice che Lee non è mai andato d’accordo con quel Danforth, perché non approvava i suoi piani bellicosi, capisci.»

«Ecco perché non l’avevamo più visto.»

«Infatti. Be’, è chiaro che c’era un mucchio di gente che appoggiava Lee, ma che non poteva fare niente, finché Danforth e i suoi avevano il controllo delle armi. Neville dice che laggiù si sono azzuffati per tutto l’autunno; ma un paio di mesi fa i sostenitori di Lee hanno organizzato libere elezioni e Lee ha vinto.»

«Be’, immagina un po’.» Ci fissammo e mi trovai a sorridere. «È una buona notizia, no?»

«Buona davvero.»

«Peccato che ormai abbiamo fatto saltare le rotaie.»

«Non so se arriverei a quel punto, ma è una buona notizia, non c’è dubbio. Bene» agitò in alto un bastone «è un tempo schifoso per stare fuori a chiacchierare. Me ne vado.» Con un lieve fischio s’inoltrò fra gli alberi, lasciando una pista di orme profonde. Capii che potevo terminare il libro.

Il libro era posato sul tavolo. Una notte (il 23 febbraio) si era alzata la luna piena. Andai a letto senza guardare il libro, ma non riuscivo a dormire. Continuavo a pensarci, a parlare dentro di me alle pagine. Una voce, dentro di me, diceva tutto perfettamente, molto meglio di quanto non avrei mai potuto fare io: questa voce declamava lunghi brani immaginari, narrandoli con i massimi particolari e con la massima eloquenza, facendoli rivivere. Ne udivo i ritmi, con la stessa chiarezza del russare di Pa’ (anche se il significato era assai meno chiaro) e mi faceva male tanto era bella. Pensai, è il fantasma di un ignoto poeta venuto a farmi visita, forse a mostrarmi come raccontarlo.

A lungo andare la voce m’indusse ad alzarmi e a terminare il libro. La casa era fredda, nella stufa il fuoco si era ridotto a un velo di braci grigie. Indossai calzoni e calze, una camicia spessa, una coperta sulle spalle. Dalla finestra entrava il chiaro di luna, simile a una barra d’argento, e mutava i mobili di legno nudo in oggetti finemente intagliati, quasi vivi. Era una luce così chiara da permettermi di scrivere. Sedetti al tavolo sotto la finestra e scrissi con tutta la velocità che la mano mi consentiva, anche se le frasi non sembravano affatto quella della voce udita mentre ero disteso a letto. Neppure per sbaglio.

Trascorse la maggior parte della notte. La sinistra mi doleva per il troppo scrivere ed ero irrequieto. La luna si tuffava fra gli alberi, togliendomi la luce. Decisi di uscire a fare due passi. M’infilai gli stivali e la giacca pesante, cacciai nell’ampia tasca il libro e alcune matite.

Fuori faceva ancora più freddo. Sull’erba la rugiada scintillava sotto i raggi della luna. Sul sentiero del fiume mi fermai a guardare su per la valle, che s’allontanava nell’aria densa, a chiazze di nero e di bianco. Non c’era traccia di vento. Tutto era calmo e immobile, tanto che udivo la neve sciogliersi intorno, gocciolare con una musica liquida, plink plonk, pip pip pip pip, gurgle gorgle plop tik tik plop, plop plop plink plop pip pip pip… Un coro acquatico della foresta, sì, che mi accompagnava mentre sciaguattavo lungo il sentiero, mani in tasca. Fiume nero fra alberi sale e pepe.

Sul sentiero della scogliera fui costretto a procedere con cautela, perché i gradini erano per metà neve marcia, per metà fanghiglia. Giù sulla spiaggia il frangersi di ogni singola onda risuonava chiaro e netto. Nell’aria brillava la nebbiolina salata: per gli spruzzi e per il chiaro di luna non si vedeva nemmeno una stella, solo un confuso cielo nero, bianco intorno alla luna. Camminai fino al promontorio accanto alla foce, dove si era formata una graziosa collina di sabbia, tagliata ai lati dal fiume e dall’oceano. Mi sedetti nel punto in cui quei due piccoli promontori di sabbia s’incontravano, attento a non far crollare la montagnola. Presi di tasca il libro, lo aprii; e lì sono seduto proprio in questo momento, catturato infine, a scribacchiare alla luce della vecchia, grassa luna.

So bene che questa è la parte della storia in cui l’autore tira le fila in un elegante svolazzo che spiega il significato; ma per fortuna qui nel libro resta solo un paio di pagine bianche, quindi non ho spazio. Ne sono lieto. Ho fatto bene a prendermi la briga di copiare quei capitoli di Un americano intorno al mondo, visto il risultato. Il vecchio mi disse che, terminato di scrivere, avrei capito che cos’era accaduto, ma sbagliava di nuovo, il bugiardo. Ho fatto la fatica di mettere tutto per iscritto; ora che ho finito, non ho la minima idea del significato. A parte il fatto che quasi tutto quel che conosco è sbagliato, soprattutto quel che ho appreso da Tom. Devo ripassare quel che so e indovinare dove ha mentito e dove ha detto la verità. Ho già cominciato, con i libri trovati e con quelli che ho preso in prestito da lui di nascosto; ho scoperto un mucchio di cose. Ho scoperto che l’impero americano non ha mai incluso l’Europa, come diceva lui… che non seppellivano i morti in un’armatura d’oro… che non siamo stati la prima e unica nazione ad andare nello spazio… che non abbiamo costruito automobili che volavano e che galleggiavano sull’acqua… che non ci sono mai stati draghi da queste parti (non credo, almeno, anche se forse non sarebbero citati in un manuale d’ornitologia). Tutte menzogne… queste, e cento altri fatti ancora che Tom mi ha raccontato. Tutte bugie.

Vi dirò che cosa so davvero: la marea è cessata e le onde rotolano su per la foce. Sulle prime sembra che ogni onda spinga verso terra tutta l’acqua del fiume, perché qualsiasi movimento visibile avviene in questa direzione. Piccoli rimorchi d’onda rotolano sulla riva, s’infrangono sulla sabbia dura e aggiungono il loro morso al tratteggio incrociato e puntinato della spianata. Per un po’ sembra che l’onda debba spingere a monte fino alla prima curva. Ma sotto il suo rimescolio bianco, il fiume continua ugualmente a scorrere verso il mare; e alla fine l’onda si ferma all’apice della spinta, si spezza in una confusione di frammenti, di colpo l’intera turbolenza è riportata al mare… finché non viene spazzata dall’onda successiva e il movimento su per il fiume riprende. Ogni onda ha diverso formato e incontra una diversa resistenza; ne risulta un’infinita varietà d’increspature, di frangenti, di spezzettamenti, di scivolate… Lo schema non è mai uguale. Capite che cosa voglio dire? Mi capisci, Steve Nicolin? Dovresti piuttosto attenerti a quel che si può fare perché duri, che non andare a caccia di novità. Ma buona fortuna a te, fratello. Cerca di fare qualcosa di buono per noi, là fuori.

In quanto a me, la luna distende una strada di scaglie a specchio fino all’orizzonte. La neve sulla spiaggia si è sciolta ieri; ma questa potrebbe essere ugualmente una spiaggia di neve, da come appare sotto questa luce, contro il bordo del mare nero. Sopra le scogliere s’alzano le montagne scure della valle, strette a coppa, inclinate per riversare nell’oceano. Onofre. Quest’ultima, umida pagina è quasi piena. E la mano sente freddo… diventa così rigida che non riesco a tracciare le lettere, le parole sono grosse e incerte, occupano l’ultima parte della pagina, grazie a Dio. Per fortuna ho terminato. C’è un gufo che svolazza sul fiume. Resterò qui e riempirò un altro libro.

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