Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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E neppure posso dire che i pescatori si mostrassero poco amichevoli nei miei confronti. Anzi, al contrario: Marvin mi dava da portare a casa il pesce migliore e Rafael parlava con me più di quanto non avesse mai fatto, scherzava sui pesci, descriveva i suoi ultimi progetti (che erano interessanti, lo ammetto), m’invitava a vederli… Si comportavano tutti così, perfino John, di tanto in tanto. Ma niente aveva significato, per me. Ero vuoto. Il mio cuore era nello stesso stato delle dita al termine della pesca: freddo e disubbidiente, intirizzito anche accanto al fuoco.

Tom in qualche modo lo intuì. Forse Rafael gliene parlò, forse se ne accorse da solo. Un giorno, dopo la pesca, risalivo a fatica il sentiero della scogliera, con l’impressione di trascinare sulle gambe un peso tre volte superiore: in cima c’era Tom.

«Giri parecchio, di questi tempi» dissi.

Lui ignorò le mie parole e agitò un dito nodoso verso di me. «Cosa ti rode, ragazzo?»

Mi ritrassi. «Niente, cosa vuoi dire?» Abbassai lo sguardo sulla bisaccia di pesce; ma lui m’afferrò per il braccio e mi strattonò.

«Cosa ti tormenta?»

«Ah, Tom.» Che cosa potevo rispondergli? Sapeva anche lui cos’era. Dissi: «Lo sai. Ti avevo promesso di non andare lassù, e invece ci sono andato.»

«E chi se ne frega.»

«Ma guarda cos’è successo! Avevi ragione. Se non ci fossi andato, non sarebbe successo niente.»

«Come lo sai? Sarebbero andati senza di te, ecco.»

«No. Potevo fermarli.» Gli spiegai cos’era accaduto, la parte che avevo recitato… tutto, fino all’ultimo. A ogni frase, annuiva.

Al termine, disse: «Be’, è un guaio.» Avevo i brividi. S’incamminò con me su per il sentiero del fiume. «Ma è facile sputare sentenze a cose fatte. Il senno di poi, eccetera. Non potevi prevedere cosa sarebbe avvenuto.»

«Sì, invece. Me l’hai detto tu. E poi, me lo sentivo.»

«Be’, ascolta, ragazzo…» Lo guardai; si bloccò. Corrugò la fronte, annuì una volta per riconoscere che era giusto da parte mia rigettare una così facile negazione delle mie responsabilità. Per un poco camminammo, poi lui schioccò le dita. «Hai già iniziato a scrivere il libro?»

«Per l’amor di Dio, Tom!»

Mi diede una spinta in pieno petto, con forza, tanto da farmi barcollare fuori del sentiero. «Ehi!»

«Forse stavolta proverai a darmi retta.»

Era un colpo basso. Spalancai gli occhi, mentre lui continuava: «Non so ancora per quanto riuscirò a sopportare i tuoi piagnistei. Mando è morto, la colpa è in parte tua, d’accordo. Ma ti avvelenerà il sangue e ti farà stare male, finché non metterai tutto per iscritto, come t’ho detto.»

«Ah, Tom…»

E mi assalì, mi spinse di nuovo! Era un atteggiamento in cui indulgeva solo con Steve; mi veniva voglia di dargli un pugno, ma nello stesso tempo mi sentivo lusingato.

«Ascoltami, per una volta!» gridò. D’un tratto mi resi conto che era turbato.

«Ti ascolto, lo sai.»

«Allora fa’ come t’ho detto. Scrivi la tua storia. Tutto quel che ricordi. Scriverla t’aiuterà a capire. E al termine avrai anche la storia di Mando. La cosa migliore che puoi fare per lui, ora. Capisci?»

Annuii, con un groppo in gola. Mi schiarii la voce. «Ci proverò.»

«Non provarci: scrivi e basta!» Mi scostai, per impedirgli di darmi un’altra spinta. «Ah! Fai bene: scrivi, oppure te le suono. Sarà il tuo compito di scuola. Non ti darò più lezioni, finché non l’avrai terminato.»

Agitò il pugno contro di me. Il braccio era un fascio di tendini a fior di pelle, magro come una fune. A momenti mi mettevo a ridere.

Così ci pensai. Tolsi il libro dallo scaffale su cui era rimasto appoggiato per sostenere una vaschetta per la cote con due sole gambe. Sfogliai le pagine bianche. Ce n’era un mucchio. Era chiaro quant’è brutto uno scorfano che non sarei mai riuscito a riempire tutte quelle pagine. Per dirne una, ci sarebbe voluto troppo tempo.

Ma continuai a pensarci. Il senso di vuoto non smetteva di tormentarmi. E con l’accorciarsi delle giornate, nella baracca le notti diventavano sempre più lunghe; i ricordi li avevo già in mente, scoprii. E il vecchio era stato davvero veemente, al proposito…

Prima che alzassi anche solo una matita, tuttavia, Kathryn dichiarò che era tempo di raccogliere il granturco. Quando lei decideva, tutti noi che lavoravamo per lei c’impegnavamo dall’alba al tramonto, ogni giorno. All’alba ero già fuori con gli altri a recidere con la falce i gambi, a portare le piante ai carri, a tirare i carri al di là del ponte fino alle alture e ai magazzini dietro la casa dei Mariani, a strappare le foglie, a staccare le pannocchie scartocciate.

A causa dei violenti temporali estivi, il raccolto fu misero e terminò in fretta. E fu la volta delle patate. Kathryn e io ce ne occupammo insieme. Non ci eravamo visti spesso, da quella notte in casa di Doc; sulle prime ero a disagio, ma sembrava che Kathryn non avesse niente da rimproverarmi. Ci limitammo a lavorare, a parlare di patate. Aiutare Kathryn era estenuante. La mattina sembrava che tutto andasse bene, perché lei lavorava con tanto accanimento da fare più della sua parte; ma il guaio era che continuava con quel ritmo per tutta la giornata, per cui ero costretto ogni giorno a fare più del normale lavoro, per quanto ne lasciassi a lei. E raccogliere patate è un lavoro che sporca, che spezza la schiena, in qualsiasi modo si proceda.

Festeggiammo la conclusione del raccolto con una piccola bevuta allo stabilimento dei bagni. Nessuno era particolarmente felice, perché era stato un raccolto scarso; ma almeno era in magazzino. Kathryn sedette accanto a me sulle seggiole nel prato dello stabilimento, a guardare il tramonto; Rebel e Kristen si unirono a noi. Dall’altra parte del cortile, Del e Gabby si lanciavano un pallone. Le fiamme del falò erano a malapena visibili contro lo sfondo del cielo color salmone. Rebel era sconvolta dalla raccolta di patate, quasi piangeva; Kathryn parlava parecchio, per tirarla su di morale.

«I parassiti sono una maledizione che bisogna sopportare. L’anno prossimo proveremo un po’ di quella roba che ho avuto dagli sciacalli. Non preoccuparti, ci vuole un bel po’ di tempo per imparare a coltivare la terra. I germogli non crescono come i figli, sai.»

A queste parole, Kristen sorrise: il primo sorriso che le vedevo dalla morte di Mando.

«Nessuno patirà la fame» dissi.

«Ma sono già stufa di mangiare pesce» protestò Rebel. Le ragazze risero di lei.

«Non si direbbe, da quanto ne mangi» replicò Kristen.

Kathryn sorseggiò pigramente il whisky. «Cos’hai fatto ultimamente, Hank?»

«Mi sono messo a scrivere quel libro che Tom m’ha dato» mentii, per vedere l’effetto della notizia.

«Ah, sì? Scrivi della valle?»

«Certo.»

Kathryn inarcò le sopracciglia. «Della…»

«Già.»

«Uhm.» Fissò il fuoco. «Be’, è una buona idea. Forse da questa estate nascerà qualcosa di buono, dopotutto. Ma scrivere un intero libro? Sarà dura davvero.»

«Oh, sì» le assicurai. «Quasi impossibile, a essere sinceri. Comunque, m’impegno.»

Tutt’e tre le ragazze parvero impressionate.

Allora ci pensai ancora un poco. Tolsi di nuovo il libro dallo scaffale e lo misi sul ripiano accanto al letto, vicino alla lampada, alla tazza e al libro delle tragedie di Shakespeare che Tom mi aveva regalato per Natale. E pensai. A quando la storia era iniziata, molto tempo fa… le riunioni con gli altri della banda, i progetti per l’estate. Non si tratta proprio di saccheggiare una tomba, aveva detto Steve, e mi svegliai di scatto…

Così cominciai a scrivere.

Era un lavoro lento. Cercare di scrivere era per me come cercare di parlare per Roger lo Strambo. Ogni notte giuravo di smettere per sempre. Ma la notte seguente, o quella dopo ancora, ricominciavo. È incredibile quanti ricordi tornino alla mente, se strizzi la memoria. Certe notti, terminato di scrivere, tornavo di nuovo in me ed ero sorpreso di essere nella nostra baracca, con il sudore che mi colava lungo le costole, le mani irrigidite, le dita doloranti, il cuore che batteva per emozioni di giorni passati. E lontano dal lavoro, in una barca sollevata dai marosi violenti, mi ritrovavo a pensare a quel che era avvenuto, al modo di raccontarlo. Capivo che avrei terminato il libro, senza badare al tempo necessario. Ero preso all’amo.

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