Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Ma ho scordato gli uccelli. Di tanto in tanto si scorge di sfuggita la sagoma nera di un gufo in volo senza il minimo rumore. Oppure, più in alto, anatre e aironi in migrazione, con la testa spinta avanti su quel collo lunghissimo, in una formazione a V che si modifica di continuo. A volte sembra che giochino a “cambia il capofila”, facendo a turno. (I corvi invece giocano a “segui il capofila”, quasi ogni bella serata, al tramonto.)

Quella notte vidi uno stormo di anatre diretto a sud: due paia di ampie V sopra la valle nell’ora che precede l’alba, quando il cielo si schiariva e riuscivo a distinguerle con buona chiarezza. Lenti e decisi colpi d’ala e una vispa conversazione a base di richiami striduli e rauchi…

Ovviamente non fanno parte della foresta vera e propria, ma li si vede lo stesso, se si è fra gli alberi. E io li vidi, quella notte. All’inizio dormii contro una sequoia; poi, per un poco, rannicchiato fra due radici nodose. Ma per lo più andai in giro. Avevo trascorso un mucchio di tempo nella foresta, di giorno e di notte, senza badarle minimamente. Era una casa, niente di speciale. Ma quella notte non volevo pensare a niente. Ero fermamente deciso a non pensare a niente; e per lunghi tratti ci riuscii. Studiai un albero dopo l’altro, vissi con loro e imparai davvero a conoscerli, li toccai, mi arrampicai su qualcuno… cercai anche gli animali che sapevo in giro lì attorno; ma, come ho detto, non amano che la gente li guardi. Udii rumori di baruffa, alcune volte, ma non vidi neppure uno scoiattolo.

Nel punto in cui il torrente dello Swing Canyon si unisce al fiume, c’è un piccolo prato sul quale non mancano mai orme d’animali. Quando mi svegliai e vidi in alto le anatre, girellai da quelle parti con la speranza di scorgere un fratello peloso farsi una bevuta. E infatti, dopo essere rimasto disteso un bel pezzo fra le felci dietro un tronco coperto di licheni a guardare un ragno tessere la tela del mattino, una famiglia di daini venne ad abbeverarsi. Maschio, femmina e cerbiatto. Il maschio si guardò intorno e annusò l’aria; capì che ero lì, ma non se ne preoccupò, mostrandosi buon giudice. La femmina faceva la schizzinosa nel fango lungo il torrente, ma il cerbiatto vi si muoveva a passo incerto. Aveva circa tre mesi, quindi avrebbe dovuto camminare perfettamente, ma sembrava voler infastidire la madre. Terminato di bere, la famiglia si allontanò nel prato e poi fuori vista.

Mi alzai, tutto irrigidito; andai al torrente e bevvi anch’io. Avevo ancora i calzoni umidi e le gambe infreddolite; ero indolenzito, sporco, pieno di tagli, affamato, sfinito… ma in linea di massima mi sentivo bene. Camminai lungo la riva occidentale, deserta come una tazza vuota. Ormai non avrei ricominciato a piangere neanche se avessi pensato a Mando e Steve. Era finita così, e non sentivo quasi niente. Se n’erano andati. E mi sentivo vuoto.

Ma poi, superala la curva sopra il ponte, scorsi una figura più a valle, sulla mia stessa riva, in fondo ai campi di granturco. Era ancora primo mattino, quando il mondo è fatto solo di sfumature di grigio… mille sfumature di grigio, ma non un filo di colore. La rugiada inzuppava ogni foglia grigia, ogni stelo, ogni felce, segno che il Santa Ana stava per terminare. Un topolino squittì, quando passai accanto alla sua tana. Mi bloccai, ma non a causa del topo.

La figura a valle era una donna. (Se una persona è visibile, per quanto lontano sia ne capiamo subito il sesso… a volte non sono sicuro di come accada, ma è così.) E la scura sfumatura grigia dei capelli di quella donna sarebbe stata castana al sole, castana con sfumature rosse. Già in quel mondo di grigi distinguevo il tocco di rosso. Si trattava di Kathryn, in fondo ai suoi campi. Dal ginocchio in giù, i calzoni erano più scuri… bagnati, quindi: significava che anche lei era stata fuori a gironzolare per un poco. Forse tutta la notte pure lei. “Ecco un altro animale che non ho visto nella foresta di notte” pensai. Mi voltava le spalle. Avrei potuto avvicinarmi, ma un impulso mi trattenne. Ci sono volte in cui una schiena a cento metri è altrettanto espressiva di un viso a un palmo. Kathryn cominciò a camminare lungo il fiume, verso il ponte. Al termine del campo, girò all’improvviso a destra e diede un calcio violento all’ultima pianta di granturco. Kathryn porta stivali grossi: la pianta si piegò, rimase inclinata. Kathryn non fu soddisfatta. Continuò a prenderla a calci finché non l’appiattì a terra. La vista mi si annebbiò, incespicando mi rifugiai fra i boschi: tutte le nostre catastrofi erano di nuovo reali, per me.

Quindi non ero così svuotato come credevo. La mia capacità di sentirmi sconvolto era superiore a quella che avevo immaginato, molto superiore. Scoprii che potevo sentirmi infelice per giorni interi; che l’infelicità e il senso di vuoto potevano occupare ogni ora di ogni giorno. E così fu, giorno dopo giorno. Era una sorpresa, per me, e nemmeno piacevole: ma non potevo farci niente. Il nostro stato d’animo non dipende da noi.

Cominciai a trascorrere sulla spiaggia un mucchio di tempo. Non sopportavo la compagnia. Un giorno tentai di unirmi di nuovo ai pescatori, ma fu un errore: erano troppo duri. Un’altra volta girellai dalle parti dei forni, ma andai via subito: la povera Kristen aveva un aspetto che mi trafisse. Anche a mangiare con Pa’ mi sentivo male. E non potevo fare visita al vecchio, era troppo malato, perdevo ogni speranza. Gli occhi di tutti m’interrogavano, o mi condannavano, o mi fissavano, quando la gente non pensava che me ne sarei accorto. Cercavano di consolarmi, o di fingere che niente fosse cambiato, e questa era una menzogna. Era cambiato tutto. Così non volevo avere niente a che fare con loro. La spiaggia era un buon posto per starmene da solo. La nostra spiaggia è così ampia, dalla scogliera all’acqua, e così lunga, dalla sabbia grossolana della foce alla confusione di massi bianchi alla rinfusa di Concrete Bay, che ci si può girare per giorni senza mai calpestare le proprie tracce. Lunghi solchi lasciati da vecchie maree, pieni d’acqua salmastra; grovigli di legna gettata a riva dal mare, compresi vecchi tronchi che puntano in ogni direzione radici da piovra; alghe infestate di pulci marine, simili a montagnole di concime nero; conchiglie intere e a pezzi; granchi della sabbia e le loro bollicine rivelatrici nella rena bagnata; piccoli e tondi piovanelli bianchi, con le zampe articolate al contrario, che vanno alla carica su e giù per i ciottoli per evitare tutti insieme l’acqua torbida; ogni cosa meritava di essere studiata per ore, per giorni. Così gironzolai avanti e indietro sulla spiaggia; ed ero infelice, o vuoto come una zucca secca.

Capite, avrei potuto non dire niente. Certo, avrei anche potuto rifiutare fin dall’inizio di partecipare al piano. Anzi, avrei dovuto fare proprio questo. Ma, anche partecipando al progetto, avrei potuto tenere per me la scoperta del luogo dello sbarco: e non sarebbe accaduto niente. Invece no. Avevo preso la decisione; e tutto quel che era accaduto in seguito… la morte di Mando, la fuga di Steve… era solo la conseguenza. Perciò era tutta colpa mia. Ero io da biasimare, per la fuga di un amico, per la morte di un altro amico. E per chissà quante altre morti di quella notte, gente che mi era sconosciuta, ma che senza dubbio aveva famiglia e amici che piangevano per loro come noi per Mando. Tutto derivava dalla mia testa, dalla mia decisione. Quanto ne soffrivo! Quanto rimpiangevo di non avere preso una decisione migliore, contraria! Avrei dato qualsiasi cosa per cambiarla. Ma niente è immutabile quanto il passato. Nel percorrere verso casa il sentiero del fiume, ricordai le parole del vecchio: siamo come cunei infilati dalla storia in una spaccatura, per cui le decisioni ci sono imposte. Ma ora sapevo che, a confronto di come è fisso il passato, il presente è libero come l’aria. Nel presente hai possibilità di scelta, ma nel passato hai fatto una sola cosa; per quanto la rimpiangi, non cambierà mai. Lo sapevo, o iniziavo a impararlo, ma questo non m’impediva di rimpiangere il passato, né di desiderare che fosse diverso.

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