Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Carmen avanzò fino all’orlo della fossa. Lesse un brano della Bibbia. Guardai un raggio di sole filtrare di storto fra gli alberi. Carmen ci disse di pregare e nella preghiera disse qualcosa a proposito di Mando, della sua bontà. Aprii gli occhi: Gabby mi fissava, dall’altra parte della fossa, accusatore, atterrito. Richiusi gli occhi, stringendo forte.

«Nelle Tue mani affidiamo la sua anima» disse Carmen. Prese una zolla di terra, la tenne sopra la fossa; nell’altra mano aveva una minuscola croce d’argento. Lasciò cadere nella fossa l’una e l’altra. Rafael e John spalarono la terra umida; le zolle caddero con un rumore sordo. Mando era ancora là sotto, quasi gridai che la smettessero, che lo tirassero fuori. Poi pensai che potevo esserci io, in quella fossa, e fui sconvolto dal terrore. Invece di Mando, il proiettile poteva colpire me, uccidere me. Fu il pensiero più terrificante della mia vita. Gabby s’inginocchiò accanto a Rafael, con le mani spinse giù la terra. Doc si girò dall’altra parte. Kathryn e la signora Nicolin lo condussero verso la casa degli Eggloff. Ma io rimasi lì a guardare; e mi riempie di vergogna scriverlo, ma cominciai a sentirmi felice. Felice di non esserci io, là sotto. Ero così felice di essere vivo, di essere lì a guardare, che ringraziai Iddio perché non era toccato a me! Grazie, Signore, che sia morto Mando e non io! Grazie, Signore. Grazie, Signore!

A volte, dopo un funerale, dagli Eggloff si tiene una sorta di veglia, ma non quel mattino. Quel mattino ciascuno tornò a casa. Pa’ mi condusse giù per il sentiero del fiume. Ero così stanco da inciampare dappertutto. Senza Pa’, sarei caduto più d’una volta.

«Cos’è successo?» mi chiese, di nuovo con espressione di rimprovero. «Perché siete andati lassù?»

C’erano altri, lungo il sentiero: scuotevano la testa, parlavano, guardavano dalla nostra parte.

Arrivati a casa, cercai di spiegare a Pa’ che cos’era accaduto, ma non potevo. L’espressione dei suoi occhi mi bloccava. Mi distesi sul letto e m’addormentai. Vorrei dire che dormii come un morto, ma non è così. Non è mai così.

Il sonno non ricuce la manica sfilacciata dell’affanno, checché abbia detto Macbeth (forse augurandoselo). Sbagliava quella volta, come spesso. Il sonno è solo un periodo di stasi. Si possono fare, nei sogni, tutte le ricuciture che si vogliono; ma quando si richiama il tempo, in un istante esso si dipana; e ci si ritrova al punto di partenza. Né sonno né sogni avrebbero ricucito per me quell’ultimo giorno: era dipanato per sempre. Passato.

Tuttavia dormii l’intera giornata e la sera; e quando la voce di Pa’, o il rumore della macchina per cucire, o un latrato di cani, mi strappava in parte al sonno, capivo di non volermi risvegliare anche se non ricordavo perché e riprendevo a dormire finché non tornavo a scivolare nel pendio dei sogni. Dormii anche per gran parte della serata, lottando sempre più faticosamente, con il passar delle ore, per rimanere addormentato.

Ma non si può dormire per sempre. Il rumore che spezzò il mio ultimo appiglio al sonno tormentato fu il u-uuuu, u-uuuu del gufo di canyon… il segnale di Steve, ripetuto con insistenza. Steve era lì fuori, senz’altro sotto l’eucalipto, e mi chiamava. Mi alzai a sedere, guardai fuori della porta; lo scorsi, un’ombra contro il tronco. Pa’ cuciva. Mi misi le scarpe. «Esco» dissi. Pa’ mi guardò, mi ferì di nuovo con quello sguardo perplesso di rimprovero, quel lieve accenno di condanna. Indossavo ancora i vestiti strappati della notte precedente. Puzzavano di paura. Ero affamato. Nell’uscire mi fermai un attimo a prendere mezza pagnotta. Mi avvicinai a Steve masticando un grosso boccone. Restammo insieme in silenzio sotto l’albero. Lui aveva in spalla una sacca piena.

Finito il pane, dissi: «Dove sei stato?»

«A Clemente, fino al tardo pomeriggio. Dio, che giornata! Ho trovato gli sciacalli che ci avevano inseguito. Cambiavo nascondiglio e sparavo, finché non hanno capito chi dava la caccia a loro! Ne ho anche colpiti alcuni… pensavano di essere assaliti da un’intera banda. Poi sono tornato a Dana Point, ma a quell’ora erano tutti andati via. Così…»

«Mando è morto.»

«… Lo so.»

«Chi te l’ha detto?»

«Mia sorella. Sono entrato di nascosto a prendere un po’ della mia roba; mi ha sorpreso proprio mentre me ne andavo. Mi ha detto tutto.»

Restammo lì a lungo. Steve inspirò a fondo, lasciò uscire l’aria. «Così, penso di dovermene andare.»

«Come sarebbe a dire?»

«… Vieni a darmi una mano.» Gli occhi mi si erano adattati al buio; con il suono esausto della sua voce, all’improvviso riuscii a vedergli il viso, sporco di terra, graffiato, disperato. «Per favore.»

«Come?»

Si avviò verso il fiume.

Andammo dai Mariani, ci fermammo accanto ai forni. Steve emise il richiamo del gufo. Aspettammo a lungo. Steve tamburellò con il pugno sulla parete del forno. Perfino io, che non c’entravo niente, mi sentivo nervoso. Il nervosismo mi portò a ricordare quanto era accaduto la notte precedente.

La porta si aprì, Kathryn scivolò fuori, con gli stessi calzoni che indossava la notte prima, ma con una camicetta diversa. Le unghie di Steve graffiarono i mattoni. Kathryn capì dov’era e venne dritta verso di noi.

«Ah, sei tornato» disse. Lo fissò, tenendo la testa inclinata da un lato.

Steve scosse il capo. «Solo per dirti addio.» Si schiarì la voce. «Ho… ho ucciso alcuni sciacalli, lassù. Vorranno vendicarsi. Se al raduno direte che me ne sono andato, che era solo colpa mia, forse non ci saranno conseguenze.»

Kathryn lo fissò.

«Non posso restare, dopo quel che è accaduto» disse Steve.

«Potresti.»

«No.»

Dal modo in cui lo disse, capii che stava per andarsene davvero. Anche Kathryn lo capì. Piegò le braccia sul petto, si strinse come se avesse freddo. Guardò dalla mia parte. Abbassai gli occhi.

«Lasciaci parlare un momento, Henry.»

Risposi con un cenno, gironzolai fino al fiume. L’acqua ticchettava sopra sporgenze simili a vetro nero. Mi domandai che cosa Steve le dicesse, che cosa Kathryn gli dicesse. Avrebbe provato a fargli cambiare idea, pur sapendo che lui non l’avrebbe cambiata?

Ero lieto di non sapere. Faceva male pensarci. Rividi la faccia di Doc, mentre guardava suo figlio «la parte ancora viva di sua moglie» calato nella fossa accanto a lei. Incapace di fermarmi, pensai: “Cosa succede se il vecchio muore stanotte, proprio lì in casa di Doc? E Doc, allora?… E Tom?”

Mi sedetti, mi strinsi tra le mani la testa, ma non riuscii a smettere di pensare. A volte sarebbe una grande benedizione, spegnere i pensieri. Mi alzai, tirai sassi in acqua. Tornai a sedermi, quando i sassi affondarono: avrei voluto poter gettare via con la stessa facilità i pensieri o gli avvenimenti del passato.

Comparve Steve. Si fermò a guardare il fiume. Mi alzai.

«Andiamo» disse lui, con voce rauca. Discese il sentiero del fiume verso il mare, tagliò per la foresta. Non scambiammo parola, camminammo solo insieme, fianco a fianco; in un breve istante ricordai com’era stato per tanto tempo, per tutta la nostra vita, quando camminavamo in silenzio di notte nei boschi, come fratelli. Passato.

Steve discese senza guardare il sentiero della scogliera, passando da un gradino all’altro con abilità e noncuranza. C’era uno spicchio di luna, quasi sull’acqua. Io discesi con maggior prudenza la scogliera buia. Spezzammo la crosta di sabbia, lasciando grandi impronte.

Un paio di barche da pesca aveva nella chiglia l’alveolo in cui inserire un piccolo albero per spiegare una vela. Steve si accostò a una di queste barche. Senza una parola l’afferrammo da prua e da poppa e la spingemmo a zigzag sulla sabbia. In genere quattro o cinque uomini spingono in acqua un’imbarcazione, ma solo per comodità: Steve e io riuscivamo a smuoverla assai facilmente. Raggiunta l’acqua bassa al di là della secca, ci fermammo. Steve salì a bordo per fissare l’albero e io tenni ferma sulla sabbia del fondo la chiglia della barca.

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