«Andiamo, prima che ne lancino un altro» disse Gabby, furioso.
Si alzò e corse sul ponte, senza aspettare il nostro parere. Lo seguimmo; ma un altro bengala scoppiò nel cielo, illuminò il ponte nei minimi particolari. Non restava che continuare a correre: e corremmo, perché il sottomarino cominciò a sparare contro di noi. Il parapetto risuonò rumorosamente per i colpi, l’aria si lacerò come stoffa compatta, come il primo brontolio del tuono. Arrivati all’estremità opposta del ponte, ci appiattimmo dietro un tratto di asfalto inclinato. Il sottomarino scaricò una gragnuola di proiettili. Dalle montagne giunse l’ululato di una sirena, basso sulle prime, poi rapidamente più acuto. Sciacalli che suonavano l’allarme. Ma contro chi combattevano? Oscurità, esplosioni remote, ululati di sirena. Il sottomarino smise di sparare. Ero così rintronato da non udire niente. Debole rumore di spari davanti a noi, dentro San Clemente, percepiti più che uditi. Steve mi accostò il viso all’orecchio, disse: «Torniamo per le vie…» e qualcos’altro che non afferrai. La sparatoria a sud significava che quelli di San Diego erano già lì, decisi; li maledissi per averci abbandonati. Scappammo di nuovo, ma certo dal sottomarino ci videro grazie ai binocoli notturni, perché ripresero a sparare. Ci gettammo a terra. Strisciammo e saltammo, corremmo piegati in due tra le macerie sulla strada costiera. Il sottomarino rimase alla foce del fiume a bombardarci. Lasciammo la strada costiera, seguimmo un basso promontorio, passammo in mezzo agli alberi, percorremmo un’altra strada. Fin dentro le rovine di San Clemente, il labirinto di macerie. Mando zoppicava, restava indietro. Pensai che il piede gli facesse male.
«Sbrigati!» gli gridò Steve.
Mando scosse la testa, zoppicò fino a noi. «Non posso» disse. «Mi hanno colpito.»
Lo mettemmo a sedere per terra. Piangeva, con la sinistra si teneva la spalla destra. Gli staccai la mano e sentii il sangue bagnare la mia.
«Perché non ce l’hai detto?» esclamò Steve.
«Ormai è fatta» disse Gabby, brusco, spingendomi via. Mise il braccio intorno a Mando. «Forza, dobbiamo riportarlo a casa il più rapidamente possibile.»
Nel bagliore lontano dell’ultimo bengala, distinti la faccia di Mando. Mi fissava come se avesse qualcosa da dirmi, ma riusciva solo a contrarre le labbra.
«Aiutami a portarlo» disse Gabby, con voce rauca.
Sentivo il sangue inzuppare la schiena della camicia di Mando. Steve gli tolse di mano la pistola e partimmo. Riuscivamo a fare solo qualche passo alla volta, prima che una trave o una parete crollata ci bloccassero.
«Dobbiamo fermare il sangue» osai dire infine. Mi colava dentro la manica e lungo il braccio. Posammo Mando a terra. Ridussi in strisce la mia camicia. Era difficile tamponare il foro del proiettile. Senza volerlo sfiorai con il dito la ferita: una piccola lacerazione sotto la scapola, a destra. Sanguinava meno di prima. Mando mi fissò ancora con un’espressione che non seppi interpretare. Non disse niente. «Ti porteremo a casa in un attimo» lo rincuorai, con voce roca. Mi alzai troppo bruscamente, barcollai, ma Steve ci aiutò a sollevarlo e ripartimmo.
Il centro di San Clemente è un unico mucchio di macerie, senza più traccia di piani urbanistici né tratti sgombri che lo attraversino. Gabby e io portavamo a fatica Mando in mezzo a noi, mentre Steve, rivoltella in mano, andava avanti a cercare la strada migliore. Di tanto in tanto le sirene ululavano al di sopra del vento; più d’una volta fummo costretti a nasconderci per evitare bande vaganti di sciacalli. Colpi d’arma da fuoco echeggiavano nelle via ingombre. Non avevo idea di chi sparasse, né contro chi. Una parete crollò sotto la spinta del vento. Varie volte finimmo in un vicolo cieco. Steve ci gridava istruzioni, ma a volte Gabby e io ci limitavamo a scegliere il percorso meno accidentato e questo provocava altre grida di Steve, acute e disperate. Da dietro giunsero delle voci; Gabby e io posammo a terra Mando, bloccati al centro della via. Tre sciacalli si avvicinarono, pistola in pugno. Steve accorse e sparò, crack crack crack crack! Tutt’e tre gli sciacalli caddero. «Avanti» ci gridò. Sollevammo Mando e proseguimmo barcollando. I vicoli ciechi ci costrinsero a tornare sui nostri passi; perdemmo un bel po’ di tempo a ritrovare la strada; alla fine raggiungemmo Steve fermo nella via… case crollate da tutte le parti, vento e sparatoria al di là, nessun mezzo per avanzare… eravamo bloccati in un gigantesco ossario.
«Non so dove siamo» esclamò Steve. «Non trovo più la strada.»
Gli dissi di prendere il mio posto, gli presi la rivoltella e attraversai di corsa la via. Attraverso gli alberi vidi l’oceano, l’unica indicazione veramente utile.
«Da questa parte!» gridai.
Scavalcai una trave, la trascinai da parte per facilitarli, corsi avanti, mi orizzontai di nuovo con il mare, scelsi una via, cercai per quanto possibile di sgomberarla per loro. E continuò così per un tempo incalcolabile: mi pareva che San Clemente si estendesse fino ai monti Pendleton. E gli sciacalli in cerca di preda, pronti ad azionare sirene e pistole, schiamazzando per l’eccitazione della caccia. Più d’una volta ci bloccarono; non osavo sparare, perché non sapevo quanti fossero, né quanti proiettili rimanessero nella rivoltella di Steve, se ce n’erano ancora.
Mentre ce ne stavamo rincantucciati nel buio di un nascondiglio, cercai di alleviare le sofferenze di Mando. Aveva il respiro soffocato. «Mando, come ti senti?» Nessuna risposta. Steve imprecava in continuazione. Con un cenno a Gabby, sollevammo di nuovo Mando. Lasciai che fosse Steve a portarlo e andai di nuovo in avanscoperta. Gli sciacalli erano spariti, alla vista almeno; non volevo altro. Mi rimisi a cercare una strada.
Bene o male arrivammo alla periferia sud di San Clemente e giù nella foresta sotto l’autostrada. Sciacalli scorrazzavano sul nastro d’asfalto. Sentivo le loro urla; di tanto in tanto scorsi delle sagome. L’autostrada era l’unico modo di superare il fiume San Mateo. Eravamo in trappola. Le sirene ci sfottevano, i colpi di pistola indicavano forse una scaramuccia con quelli di San Diego, ma sospettavo che Gabby avesse ragione, che si fossero allontanati da un pezzo, sulle barche, di nascosto. Non sarebbero tornati ad aiutarci. Gabby teneva Mando in grembo, per farlo riposare. Il respiro di Mando gorgogliava. «Dobbiamo portarlo a casa» disse Gabby, guardandomi.
Presi di tasca i proiettili, cercai di caricare la rivoltella di Steve.
«Dov’è la tua?» disse lui.
I proiettili non andavano bene. Con una bestemmia buttai il sacchetto sulla strada. Per terra, dove sedevamo, c’era un sasso che mi si adattava bene alla mano. Lo raccolsi e mi diressi all’autostrada. Non so cosa avessi in mente.
«Portatelo accanto alla strada e tenetevi pronti ad attraversare in fretta il San Mateo» dissi. «Appena ve lo dico, passate.»
Ma una serie di esplosioni sconvolse l’autostrada sopra di noi; e quando terminò (il vento portò l’odore di polvere da sparo bruciata) non ci furono altri rumori. Non si udiva nemmeno uno sciacallo. Il silenzio fu rotto dal rombo di un veicolo in arrivo da sud. Un vrrr sommesso. Strisciai sul terrapieno per dare un’occhiata. Saltai allo scoperto e agitai la mano. «Rafael! Rafael! Qui, presto!» gridai, forte come mai in vita mia.
Rafael si fermò accanto a me. «Cristo, Hank, a momenti ti sparavo!» disse. Era sul carrello da golf che teneva nel cortile davanti alla casa, il carrello che avrebbe fatto funzionare se solo avesse trovato le batterie, giurava lui.
«Lascia perdere» risposi. «Mando è ferito. L’hanno colpito.»
Comparvero Gabby e Steve, portando Mando.
Rafael risucchiò aria fra i denti. «Mettetelo giù.»
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