Spari sparsi risuonarono dall’autostrada, un proiettile scheggiò il cemento accanto a noi. Rafael prese dal carrello un tubo metallico sorretto da montanti, inclinato rispetto alla base piatta. Lo sistemò sulla strada, vi lasciò cadere dentro una bomba o una granata grossa quanto un pugno (sembrava una castagnola). Thonk, disse il tubo, con voce sorda. L’attimo dopo ci fu un’esplosione a qualche metro dall’autostrada, all’incirca nel punto dal quale erano giunti gli spari. Mentre Gabby e Steve sistemavano Mando nel carrello, Rafael continuò a lanciare granate, thonk-BOOM, thonk-BOOM, e ben presto più nessuno ci sparò addosso. Dopo un’ultima triplice esplosione, saltammo nel carrello e partimmo.
«In salita, scendete a spingere» disse Rafael. «Questa baracca non ce la fa a portarci tutti. Steve, prendi questo e controlla che non ci seguano.» Gli porse una carabina.
«Proiettili?» chiese Steve.
Rafael indicò per terra, vicino ai suoi piedi. «Nella scatola.»
All’estrema periferia di San Clemente cominciava la montagna. Spingemmo il carrello a bassa velocità. Sirene gemevano in lontananza fra le alture; ne distinsi tre diverse, il cui suono ondeggiava a diverso livello, sotto la spinta del vento. Superammo l’altura, entrammo nella valle San Mateo. Cullai la testa di Mando, gli dissi che eravamo vicini a casa. Alle nostre spalle ci furono deboli rumori, ma ora ci muovevamo a velocità maggiore di un uomo in corsa. Arrivammo alla salita che porta al monte Basilone.
Rafael disse: «Spingete di nuovo.» Era calmo, ma quando mi guardò, aveva negli occhi una luce dura. In cima al Basilone, Steve gridò selvaggiamente: «Torno indietro a fargliela pagare!» e sparì nel buio, carabina in pugno, diretto all’autostrada a nord.
«Aspetta!» gli gridai dietro, ma Rafael mi afferrò il braccio.
«Lascia che vada» disse.
Per la prima volta pareva arrabbiato. Guidò il carrello a casa sua, balzò giù, entrò in casa, ne uscì portando una barella. Vi stendemmo Mando. Aveva sempre gli occhi aperti, ma non mi udiva. Un filo di sangue gli colava dall’angolo della bocca. Gabby ci seguì, risentito, mentre io e Rafael reggevamo la barella. Tagliammo per la foresta, traversammo il fianco del Cuchillo per arrivare prima a casa dei Costa. Inciampai, mandai un gemito; Gabby prese il mio posto, quando capì che non vedevo più dove mettevo i piedi. Arrivammo alla casa dei Costa, ma non riuscivo a smettere di piangere. Il vento fischiava sopra i bidoni: nessuno ci aveva sentiti arrivare. Rafael puntellò la barella contro la coscia e picchiò alla porta come se volesse sfondarla. Wham. Wham.
«Vieni fuori, Ernest» gridò, senza smettere di bussare. «Vieni fuori a curare tuo figlio.»
Varie volte, in precedenza, Doc aveva certo immaginato il momento in cui avrebbero bussato alla sua porta e sarebbe stato suo figlio, ferito, ad avere bisogno delle sue cure. Quando aprì, non disse una parola; uscì, sollevò Mando dalla barella, attraversò la cucina, lo portò nell’ospedale, senza rivolgerci un’occhiata né una domanda.
Lo seguimmo. Doc distese Mando sul secondo letto, quello più piccolo; lo scostò dalla parete. Al rumore, Tom sbuffò e si girò dalla nostra parte. Socchiuse un occhio, ci vide, si alzò a sedere, si strofinò con le nocche gli occhi, esaminò la scena in silenzio. Doc adoperò le forbici per tagliare la giacca e la camicia di Mando, con un gesto indicò a Gabby di togliere i calzoni al ragazzo. Gabby socchiuse gli occhi, mentre aiutava Doc a staccare la stoffa insanguinata della camicia. Mando tossì, gorgogliò, respirò in fretta, con un rumore basso. Sotto le forti lampade che Rafael portò dalla cucina, il suo corpo sembrava livido e chiazzato. Più giù dell’ascella aveva quel piccolo foro circondato dalla lacerazione. Rafael quasi inciampò in me, andando dentro e fuori. Mi sedetti sui talloni contro la parete, ginocchia sotto le ascelle, braccia intorno alle gambe, dondolando avanti e indietro, leccandomi il moccio dalle labbra, evitando di guardare dalla parte di Tom. Doc non guardava nessuno, tranne Mando.
«Chiamate Kathryn» disse.
Gabby mi lanciò un’occhiata, corse fuori.
Tom disse: «Come sta?»
Doc palpò con cautela le costole di Mando, gli batté sul torace, gli misurò le pulsazioni al polso e al collo. Borbottò, più a se stesso che a Tom: «Calibro medio, polmone intaccato. Pneumotorace… emotorace…»
Sembrava una formula magica. Con uno straccio bagnato pulì il sangue dalle costole. Mando tossì, Doc gli sistemò meglio la testa, gli infilò le dita in bocca, gli tirò di lato la lingua. Un affare di plastica, preso dallo scaffale degli strumenti, servì a tenere ferma la lingua. Un morsetto di plastica, di lato, teneva spalancata la bocca… la spina dorsale mi sfregò su e giù contro il bidone a cui mi appoggiavo. Il vento aumentò: uiiiiiii, uiiiiiiii.
«Dov’è Steve?» mi domandò Tom.
Non alzai lo sguardo da terra. Dalla cucina, rispose Rafael.
«È rimasto su a nord a sparare un paio di caricatori contro gli sciacalli.»
Tom si agitò contro la parete, tossì.
«Smettila di muoverti» disse Doc.
Un ramo portato dal vento urtò la casa, con rumore secco. Il respiro di Mando era rapido, rauco, basso. Doc gli piegò la faccia di lato, gli asciugò dalle labbra un filo di sangue rosso vivo. Sotto di me, il pavimento, la grana liscia delle assi del pavimento. Nodi sollevati sulla superficie consumata, fessure, schegge lucide e nette alla luce delle lampade, sabbia da sfregatura negli angoli, contro le pareti. Il piede del letto più vicino aveva una zeppa. Le lenzuola erano così vecchie che ogni filo del tessuto risaltava; lavoro d’ago, nelle toppe. Fissai il pavimento, non sollevai lo sguardo. Respirare mi faceva male, avrei potuto essere io il ferito. Ma non ero io. Non ero io. Le gambe di Kathryn entrarono nella stanza, piegarono un poco le assi. Le gambe di Gabby seguirono.
«Mi serve aiuto» disse Doc.
«Eccomi» rispose Kathryn, calma.
«Dobbiamo infilare un tubicino fra queste costole e drenare il sangue e l’aria dalla cavità toracica. Prendi in cucina un barattolo pulito, mettici quattro dita d’acqua.» Kathryn uscì, tornò. I loro piedi erano gli uni di fronte agli altri, sotto il letto di Mando. «Temo che l’aria entri e non esca. Tensione pneumotoracica. Qui, posa il tubicino e il cerotto. Tienilo fermo. Inciderò qui.»
Mi tappai le orecchie. Niente suoni. Niente immagini, a parte argentee assi di legno. Niente di reale, tranne legno… Ma no. Colpi di tosse soffocati, dal vecchio. Una rapida occhiata in alto: la schiena di Kathryn, in maglietta e calzoni sorretti da uno spago; il vecchio, che li fissava senza battere ciglio. Per terra il barattolo, con il tubicino di plastica chiara infilato nell’acqua. All’improvviso l’acqua gorgogliò. Del sangue colò lungo il tubicino, macchiò l’acqua. Altre bolle. Lo sguardo inflessibile del vecchio: mi avvolsi le braccia intorno allo stomaco, alzai lo sguardo. L’ampia schiena di Kathryn m’impediva di vedere Mando. Fui scosso da brividi. Spalle ampie, natiche larghe, cosce spesse, caviglie sottili. Gomiti affaccendati, mentre Kathryn strappava dal rotolo un pezzo di cerotto e lo applicava a Mando dove non vedevo.
Kathryn girò la testa, mi diede un’occhiata. «Dov’è Steve?»
«Su a nord.»
Con una smorfia si girò a lavorare.
Tom tossì di nuovo, piano, ma diverse volte. Doc lo guardò. «Stai disteso, tu!» disse, brusco.
«Sto bene, Ernest. Non pensare a me.»
Doc aveva già ripreso. Si chinò sopra Mando, con una luce disperata negli occhi, come se l’arte insegnatagli da suo padre tanto tempo prima stavolta non bastasse. «Serve ossigeno» disse. Batté qualche colpetto sul torace di Mando. Il suono era sordo. Il respiro di Mando divenne più rapido. «Devo fermare l’emorragia» disse Doc. Le raffiche di vento aumentarono al punto da non permettermi di udire le voci a causa dei sibili. «Usiamo la ferita per inserire un altro tubicino…»
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