Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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Dissi: «Vai a Catalina, come quel tale che ha scritto il libro.»

«Giusto.»

«Sai che il libro è solo un mucchio di fandonie.»

Non smise di svolgere la vela. «Non me ne importa. Se il libro è una menzogna, lo farò diventare verità.»

«Non è il tipo di menzogna che puoi far avverare.»

«Come lo sai?»

Non lo sapevo, ma non potevo ammetterlo. Sistemato l’albero nella scassa, Steve lo fissò con la coppiglia. Non volevo chiedergli di brutto di restare. «Pensavo che avresti dedicato la vita a combattere per l’America.»

Interruppe il lavoro. «Non credere che non lo faccia» disse con amarezza. «Hai visto cos’è successo, quando abbiamo provato a combattere qui. È impossibile. Ma a Catalina si può fare qualcosa. Scommetto che là c’è un mucchio di americani che condivide la mia idea.»

Era chiaro che per ogni obiezione avrebbe avuto pronta una risposta. Passai a poppa, pronto a spingere.

«Sono sicuro che laggiù la resistenza è più valida che altrove» disse. «Più efficace. Non credi? Voglio dire… Non vieni con me?»

«No.»

«Ma dovresti venire. Te ne pentirai. Questa è una piccola valle fuori del mondo.» Mosse la mano verso occidente. «E laggiù c’è il mondo, Henry!»

«No.» Mi chinai sulla poppa. «Deciditi! Vuoi aiuto con la barca o no?»

Mise il broncio, scrollò le spalle. Da come poi le lasciò ricadere, vidi quanto fosse stanco. Ed era una lunga traversata. Ma non sarei andato con lui, né intendevo spiegargli i miei motivi. Comunque, non si aspettava che dicessi di sì, giusto?

Si scosse, scese a spingere. In breve la barca fu a galla. Da sopra, ci guardammo. Mi tese la mano. Gliela strinsi. Non sapevo cosa dire. Steve balzò a bordo, tirò fuori i remi mentre da poppa tenevo ferma la barca. Quando la spinsi nella corrente, cominciò a remare. Con la falce di luna alle sue spalle, non riuscivo a distinguere la sua espressione. Non ci scambiammo parola. Superò a forza di remi un’ondata che risaliva il fiume. Presto sarebbe stato al largo, dove gli ultimi refoli del Santa Ana avrebbero superato la scogliera e gonfiato la vela.

«Buona fortuna!» gridai.

Continuò a remare.

L’onda successiva nascose per un momento la barca. Uscii infreddolito dal fiume. Sulla riva, guardai Steve superare la foce. La vela, debole chiazza contro il nero, sbatté e si gonfiò. Ben presto Steve fu al di là dei frangenti. Da lì non mi avrebbe udito, a meno che non avessi urlato.

«Fai qualcosa di buono per noi, laggiù» dissi. Ma parlavo a me stesso.

Risalii il sentiero della scogliera, gocciolando acqua dai calzoni. Arrivato in cima, mi ero già scaldato un poco. Camminai lungo la scogliera. Era un’altra notte serena; la luna calante splendeva sull’acqua, segnava la distanza dell’orizzonte. Era una notte di quelle che ti fanno capire quant’è vasto il mondo: l’oceano, il cielo stellato, la scogliera, la valle, le montagne più all’interno, tutto era così gigantesco che al confronto sarei potuto essere una formica. Là fuori, sotto un pallido fazzoletto di stoffa, c’era un’altra formica, in una barca da formiche.

La vedevo all’orizzonte: mare scuro sotto, cielo scuro sopra e, fra i due, la massa scura di Catalina, ingemmata da bianchi puntini luminosi, fissi e mobili, da luci rosse che segnavano le cime più alte, da poche luci gialle e verdi qua e là. Sembrava una costellazione vivida, la costellazione più bella, sempre sul punto di tramontare. Per anni l’avevo considerata lo spettacolo più bello che avessi mai visto. C’era un grappolo di luci sull’acqua all’estremità meridionale, invisibile dalla scogliera… il porto degli stranieri… ma visibilissimo dall’alto, dalla casa di Tom, in una notte serena come quella. Non avevo alcuna voglia di salire fin lassù per guardare. La chiazza confusa della vela di Steve si mosse fuori dello stretto raggio di luna e scomparve. Steve era una delle ombre fra gli scarsi scintillii del mare buio; ma, pur aguzzando la vista, non riuscivo a distinguerla. Per quel che ne sapevo, l’oceano poteva anche averlo inghiottito. Ma no, la piccola barca era ancora là fuori, chissà dove, e navigava a ovest verso Avalon.

Rimasi parecchio tempo sulla scogliera a fissare l’oceano. Poi non riuscii più a sopportarlo e mi allontanai nella foresta. Le foglie stormivano, gli aghi di pino tremolavano. Mai, come in quel momento, la valle m’era parsa così grande e così vuota. In una radura mi girai a guardare; le luci di Catalina ammiccavano e danzavano. Voltai loro le spalle e continuai. Non mi fregava un accidente, anche se non avessi più visto Catalina.

21

Di notte, la foresta è un luogo bizzarro. Gli alberi diventano più grandi e sembrano tornare alla vita, come se per tutto la giornata avessero dormito o abbandonato il proprio corpo; e solo di notte si animano e vivono, forse ritirano le radici e camminano per la valle. Se ti trovi nella foresta, a volte quasi li sorprendi, proprio con la coda dell’occhio. Naturalmente, in una notte senza luna, basta un leggero venticello a dare quest’impressione. I rami si piegano ad accarezzare i capelli, gli sgocciolii delle foglie sembrano voci fioche che chiamino in lontananza. Due buchi diventano occhi; una freccia incisa sul tronco è una bocca sorridente; i rami sono braccia; le foglie, mani. Facile. Penso ancora che forse siano davvero una specie d’animale notturno. Sono vivi, in fin dei conti. Tendiamo a scordarcene. In primavera germogliano gioiosamente; in estate, si crogiolano al sole; in inverno, soffrono la nudità e il freddo. Proprio come noi. Quindi, se si vuole avere a che fare con gli alberi, la notte è il momento giusto per starci in mezzo.

I diversi alberi si svegliano in maniere diverse e ti trattano in modi diversi. Gli eucalipti sono amichevoli e chiacchieroni. I loro rami tendono a crescere gli uni di traverso agli altri e nel vento scricchiolano in continuazione. E le foglie pendenti si agitano e si urtano, con un rumore d’acqua cadente, una voce che si alza e si abbassa, che accarezza come un abbraccio o un lieve tocco sulla fronte. L’eucalipto ha una grande voce. Ma non viene voglia di toccarlo o di abbracciarlo, a meno di vederlo con chiarezza per evitare la resina. La corteccia liscia e fresca, che emana come il resto dell’albero il tipico aroma acuto e vago, non cresce con la stessa velocità del legno interno, almeno immagino, e presenta quindi un mucchio di screpolature e ferite che la lacerano completamente. Le screpolature trasudano resina con la facilità con cui i cani sbavano, e nel buio non si può evitare di toccarle con le mani o con le braccia, che poi restano tutte appiccicose.

I pini sono conversatori più arcigni. Nella brezza, il loro calmo uuuuuu ha del soprannaturale e, sotto un forte vento, il loro frenetico ohhhhhhh fa rizzare i capelli in testa. Ma i pini sono piacevoli al tocco e non ci si stanca mai d’ammirare il loro profilo scuro contro il cielo. I pini di Torrey hanno aghi più lunghi di tutti e rametti piccoli, arricciati, che si dipartono a spirale da quelli più grossi, sembrano pezzi delle molle che Rafael tiene in bottega, e formano graziosi disegni. E la corteccia scabra e friabile procura una sensazione piacevole contro la pelle, come la lingua di un enorme gatto. La corteccia delle sequoie è anche migliore, crepata e lanosa; si possono infilare le dita nelle crepe e reggersi come se ne andasse della vita: sembra quasi di abbracciare un orso, o di stringersi alla propria madre e piangerle fra i capelli. Amici fantastici, i pini; anche se per scoprirlo tocca ignorare la loro voce severa e toccarli.

Naturalmente ci sono vere creature viventi, nella foresta, di notte; creature mobili, voglio dire, animali come noi. Ce n’è un mucchio, in realtà: coyote e donnole, moffette e procioni, daini e felini selvatici, conigli e opossum, orsi e chissà cos’altro. Ma figuriamoci se ci si accorge della loro presenza solo a camminare fra gli alberi. Anche un essere umano seduto tutto solo nella foresta per ore potrebbe non scorgere neppure di sfuggita una singola creatura… a maggior ragione uno che cammina con fracasso rasentando alberi e simili. Un tipo del genere non vedrà mai un solo animale, né lo sentirà, a parte le rane. Le rane non si spaventano facilmente, hanno il fiume in cui saltare e se ne fregano. Solo perché tacciano, bisogna rischiare di pestarle, altrimenti nemmeno si muovono. Tutti gli altri animali però ti sentono arrivare o ti fiutano da lontano; si tolgono di mezzo e non saprai mai che c’erano, a meno di non udire un fruscio in lontananza. Certo i grossi felini possono decidere di mangiarti, ma ti auguri che siano abbastanza prudenti da starsene lontano dalla valle. In genere evitano la gente e in autunno non sono molto affamati. Perciò, se vai in giro, non vedi animali; ed è questo lo strano, perché sai che sono dappertutto, a bere, a mangiare germogli o prede morte, a cacciare o a nascondersi l’uno dall’altro.

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