Carr si fermò subito all’interno della porta d’ingresso, conscio d’una crescente ansietà. Si rese conto di star aspettando che Jane lo chiamasse: quasi era stato convinto che il raggio della torcia avrebbe rivelato il suo viso. Gli venne in mente per la prima volta quanto fosse strano che lei avesse organizzato le cose in modo d’incontrarlo al secondo piano… senza chiamarlo o scendergli incontro, adesso che l’aveva sentito arrivare.
Attraversò l’atrio fino alla scala più grande, tendendo le orecchie a ogni passo, e cominciò a salirla. Spense la torcia. I gradini scricchiolavano leggermente sotto il suo peso. L’odore della vecchia polvere stava diventando più intenso, perfino i suoi cauti passi dovevano sollevarne nuvolaglie. Guardò su per la tromba ovale delle scale, verso l’ovale più piccolo di tenebra più pallida che indicava il soffitto del secondo piano, là dove le finestre infrante dovevano lasciar passare un po’ di luce. Gli parve che quell’ovale più piccolo mostrasse un’irregolarità, come se (forse) una testa si fosse sporta a sbirciare verso il basso. Ma quando salì di un altro gradino, non riuscì più a vederla. Per qualche ragione, la sua immaginazione continuava a raffigurarsi non Jane, ma la figura in impermeabile nero accanto alla quale era passato vicino ai binari del tram. Non aveva neppure guardato il suo viso, ma adesso desiderò di averlo fatto poiché provava la tardiva sensazione di averla riconosciuta.
Si fermò sul pianerottolo del primo piano, poi riprese a salire. Dopo altri sei gradini, si arrestò di botto.
Adesso non poteva esserci nessun errore. Era lassù che sporgeva da sopra la voluminosa balaustra in cima alle scale, il buio più scuro di una testa contro il buio meno denso del soffitto. Il silenzio parve coagularsi intorno a lui mentre la scrutava.
Di scatto puntò la torcia in quella direzione, l’accese. Nel cerchio di luce gialla vide il volto di Jane che lo fissava in preda al terrore.
Chiamò il suo nome, fece di corsa gli ultimi gradini. Poi furono l’uno nelle braccia dell’altra. Carr sentì svanire l’ultima traccia di stanchezza, poi la sentì tornare in un impeto momentaneo, al punto da farlo barcollare là in cima alle scale mentre la stringeva a sé ebbro di gioia.
— Tesoro, avevo tanta paura che non fossi tu — gli disse lei d’un fiato, affondandogli le dita nelle spalle. — Perché non mi hai chiamato?
— Non lo so — balbettò lui. — Mi aspettavo che lo facessi tu.
— Ma non potevo essere sicura che fossi proprio tu — rispose lei. — Perché ci hai messo tanto? È stata l’attesa qui nel buio a spaventarmi. Sono qui da ore. Cosa ti è successo?
Con poche brevi frasi Carr le spiegò perché era scappato via da lei e le descrisse per sommi capi il suo tuffo nel fiume il suo successivo salvataggio da parte del battelliere.
— Sì, ma dopo? — lei insisté. — Che hai fatto dopo?
— Sono venuto direttamente qui — le disse Carr — subito dopo essere tornato nella mia stanza.
— Non è possibile — ribatté lei scostandosi leggermente. — Sono passate ore.
— Cosa vuoi dire? — le chiese lui, perplesso.
— E come mai tutto è successo così in fretta? — continuò lei rapidamente. — Quella faccenda con il battelliere, voglio dire. Non può essere passata più di mezz’ora, dopo che ti ho perso di vista in mezzo a quella folla vicino alla biblioteca, da quando sono tornata in tutta fretta nella tua stanza, eppure quando sono arrivata c’era già il tuo biglietto ad aspettarmi.
Carr l’afferrò per le braccia. Il silenzio nella vecchia casa era divenuto mortale. — Il mio biglietto?
— Sì, quello che mi diceva di venire qui ad aspettarti.
Carr cercò di studiare l’espressione di lei in quel buio grigiore. Sotto le sue mani, sentì le braccia di Jane che s’irrigidivano, come se i timori che andavano accumulandosi in lui filtrassero dentro di lei.
— Jane — bisbigliò — sono tornato nella mia stanza soltanto venti minuti fa. Non ho lasciato nessun biglietto. Sono venuto qui perché ho trovato il tuo.
— Il mio…
— Il tuo biglietto.
— Ma Carr, io non ho… — cominciò lei. Poi la sentì sussultare e immobilizzarsi come un animale spaventato.
Sentì, nel silenzio, un lieve strusciare. Lo sentì una seconda volta… e poi un acuto lamento.
Era l’ingresso del sottoportico che si stava aprendo.
Poi un rumore di passi nel grande atrio, due piani più sotto.
Come se fosse qualche altra persona a parlare, un riflesso di Carr che pensava alle tattiche e alle strategie mentre il Carr principale era ipnotizzato dalla paura, si sentì bisbigliare: — C’è un’altra scala sul retro. Potremmo…
Proprio allora, come se fossero state fantasticamente amplificate dall’eco, le parole gli giunsero tonanti da sotto: — C’è un’altra scala sul retro.
Ma il timbro era quello squillante e gradevole del signor Wilson.
— Tutto a posto. — Il timbro acuto e compiaciuto della signorina Hackman fendette come un razzo quello più grave del signor Wilson. — Se cercheranno di usarla, Daisy se ne accorgerà, non è vero, cara?
Carr sentì Jane in preda a un tremito spasmodico, per poi tornare a immobilizzarsi. Cercò di allontanarla dalla cima delle scale, ma era rigida come un bastone. Gli pareva che tutto stesse accadendo al rallentatore, cosicché quando una terza voce più vivace salì dalla tromba delle scale dicendo: — Diamoci da fare — queste tre parole parvero giungergli all’orecchio distanziate di molti metri l’una dall’altra. L’odore della polvere nelle sue narici era qualcosa che andava annusato con attenzione, esaminato con precisione. Alla luminosità crescente, cominciò a distinguere il disegno a foglie e a tralci della carta da parati dietro la testa di Jane.
Un trepestio di più passi risalì le scale, e in mezzo ad essi un ritmico e rapido rumore felpato. Dal punto in cui si trovava, Carr poteva sbirciare trasversalmente giù per la tromba delle scale fino a un breve segmento della prima rampa, che era ancora immersa nel buio. Ma poi parve, alla sua vista acuita, che una oscurità più lustra e luminosa balenasse per un istante là sotto. Come una sbuffata di profumo da due soldi, salì dalla tromba delle scale la voce zuccherosa della signorina Hackman: — Non c’è fretta, Daisy. Avrai tempo in abbondanza.
Ancora una volta Carr cercò di tirar via Jane. La ragazza non volle muoversi. Eppure dentro di sé si rese conto che quel tentativo da parte sua era poco più d’una simulazione, che l’altro Carr, il quale stava pensando alle possibilità di difesa offerte da quella stanza con le finestre a pezzi intorno a loro, stava diventando un’ombra sempre più vaga a ogni istante che passava.
No, era fatta. Quella era la fine d’una coppia di amanti che avevano scoperto come la vita fosse molto simile a una notte passata per scommessa in un museo delle cere dove alcune delle figure fossero finalmente diventate vive. La fuga in un mondo morto che non offriva nessun rifugio era inutile. Carr ebbe la momentanea visione del destino dell’ometto dalla pelle scura con gli occhiali. No, non c’era proprio niente che potessero fare.
Jane era come una statua fra le sue braccia, salvo che poteva sentire i suoi respiri terrorizzati mentre salivano e scendevano attraverso la sua gola. La sua mente era curiosamente vuota, attenta a cose così banali come la carta da parati, la luce e l’identità della figura con l’impermeabile nero accanto alla quale era passato poco prima, vicino ai binari del tram. Per qualche motivo, quell’interrogativo lo tormentava.
I passi lungo le scale rallentarono.
— Bene, non c’è dubbio che siano là sopra. Il capello è spezzato. — Le parole del signor Wilson avevano un suono eminentemente pratico, anche se erano inframmezzate dall’ansimare. Poi, quando i passi arrivarono al pianerottolo del primo piano: — Aspettate un momento. Mi manca il fiato.
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