— Al prossimo angolo taglieremo per arrivare al raccordo anulare — bisbigliò Carr. Jane annuì.
Si voltarono e s’incamminarono rapidamente lungo il muro vuoto di pietra grezza che correva sotto le finestre rientranti della biblioteca. Avevano quasi raggiunto l’angolo quando un autobus si fermò lì accanto e una folla di marinai si riversò fuori, con le gambe che scattavano rapide come grandi forbici azzurre. Carr era rimasto un po’ indietro. Proprio mentre Jane stava girando l’angolo, i marinai li separarono. Prima di aprirsi la strada fra loro, Carr rivolse un’ultima occhiata alle sue spalle.
Driscoll Aimes era a meno di dieci metri dietro di lui e veniva avanti con passo veloce. Vide Carr nel medesimo istante in cui Carr vide lui. Per un attimo rimase immobile come inchiodato a terra. Poi si precipitò impetuosamente in avanti.
Carr si girò e attraversò di corsa la strada puntando dritto verso il Michigan Boulevard, pregando che Jane continuasse ad andare avanti, evitando così di venir notata.
I manichini dagli occhi brillanti, le labbra imbronciate, nei negozi di abbigliamento, erano più vivi della gente intorno a lui che continuamente aggirava e schivava.
Si guardò alle spalle: aveva guadagnato terreno su Driscoll Aimes, anche se questi stava correndo. E (grazie a Dio!) Jane non era in vista.
Carr si precipitò giù per la scala di ferro nella penombra del livello sottostante. Gli scalini rimbombarono sotto i suoi piedi.
Giunto in basso, continuò a correre nella stessa direzione. Qui il marciapiede era a circa un metro e mezzo dalla strada acciottolata, al livello della sommità delle macchine parcheggiate fianco a fianco in una fila continua. Agli incroci Carr discese i gradini per risalirli sul lato opposto. A due isolati di distanza le finestre rettangolari del tramonto gli indicarono il lungofiume.
Alla fine dell’ultimo isolato Carr lanciò un’altra occhiata alle sue spalle.
Dris non era in vista ma, balzando sopra i tettucci delle automobili parcheggiate, come se il loro metallo dipinto fosse una superficie più congeniale per le sue zampe, nei confronti del cemento del marciapiede, stava arrivando il ghepardo nero.
Carr ricordò le urla che erano uscite dal negozio di abbigliamento.
Si tuffò giù per gli ultimi gradini, passò sfrecciando davanti a un camion che rovesciava terriccio nella sua corsa sobbalzante e balzò verso il lungofiume. Riusciva a sentire dietro di sé un ritmico zampettare.
Sbucò fuori alla luce crepuscolare del lungofiume.
Senza frenare la corsa, l’attraversò e si tuffò verso l’acqua oleosa.
Intravide pali neri che gli passavano accanto. La sua testa subì un colpo fortissimo. Fu travolto da un’ondata di dolore.
Era conscio del gelo dell’acqua, del peso dei suoi indumenti, della luce che sbiadiva. Del nulla.
Dapprima vi fu un palpitìo. Poi il palpitìo si ruppe in due parti: dolore e un lento dondolio. Poi molte altre sensazioni: il puzzo dell’olio bruciato e del legno marcito nell’acqua. La sensazione di coperte contro la sua pelle nuda. Una luce che ondeggiava. Un soffitto basso. Una sofferenza diffusa. Un accenno di nausea.
Poi la constatazione che tutto si concentrava su una sola persona, e che quella persona era lui.
Poi un grande ovale indistinto sopra di lui, che lentamente si schiarì fino a diventare un viso. Un viso pallido e gigantesco, con ampie e massicce mascelle che suggerivano una disfunzione ghiandolare. Una bocca larga col labbro inferiore pendulo e denti gialli. Guance fittamente solcate, un naso rotto e risaldato in qualche modo, occhiaie cavernose con grandi occhi immobili, il bianco leggermente fosco. Sopracciglia nere, cespugliose, striate di grigio. E sopra, la grande cupola bianca della fronte. L’espressione era quella d’una preoccupata sollecitudine.
Carr sentì una grande mano infilarsi sotto le sue spalle e sollevarlo senza sforzo alcuno: un bicchiere di vetro grossolano gli fu spinto contro le labbra.
— Bevete.
Era whisky allungato con acqua. Carr ne trangugiò un poco a piccoli sorsi. Poi tornò a guardare quel viso. Riconobbe il gigantesco battelliere che una volta aveva alzato lo sguardo su di lui quand’era passato sul ponte. Intuì di trovarsi nella cabina della chiatta nera a motore.
Ma non voleva pensare. Non tanto per il dolore quanto per una generale, amareggiata svogliatezza. Era contento di starsene lì disteso fra le coperte.
Il battelliere si rizzò. Era così alto che la sua testa mancava di poco le centinature ricurve che sostenevano il tetto della cabina, da una delle quali pendeva un’avvampante lampada a olio.
— Vivrete, state tranquillo — disse il battelliere con voce tonante. — Anche se non ci avrei giurato quando vi ho ripescato. Come avete fatto a cacciarvi in un simile pasticcio? A chi avete dato fastidio? Suppongo che siate andato in giro ad agitare le acque come la maggior parte degli altri sciocchi. Alla banda questo non piace. Guasta il loro spettacolo. Dovreste imparare a vivere tranquillo come faccio io. — Allungò una grossa mano dalle dita a spatola e si versò una porzione di whisky nel bicchiere dal quale Carr aveva bevuto.
La vernice alle pareti era annerita e si stava scrostando. A un’estremità della cabina c’era una piccola cucina economica con una dispensa, un lavello e un serbatoio arrugginito per l’acqua, appeso al soffitto grazie a un paio di supporti metallici. Alla stessa altezza c’erano diverse fessure per la ventilazione, ma Carr non poteva vedere fuori da esse. Notò i suoi indumenti che si stavano asciugando su una specie di corda per il bucato. Dalla parte opposta della cuccetta c’era un’ampia porta scorrevole, chiusa. C’erano parecchie cassapanche e altre casse tutt’intorno. Vicino alla porta vide una piccola libreria fatta con cassette per la frutta. Era piena zeppa di grossi volumi. Appiccicate alle pareti, là dove lo spazio lo consentiva, c’erano fotografie di pugili professionisti ritagliate dai giornali, e riproduzioni da pochi soldi d’incisioni e acqueforti di Doré e Goya.
Il battelliere si verso altro whisky e prese posto su una sedia di legno grigio non dipinto. Si grattò i peli del petto che sporgevano come cespugli dalla canottiera. Fissò Carr corrugando la fronte.
— Come avete fatto ad accorgervene? — Si sporse dalla sedia, i gomiti sulle ginocchia. — La maggior parte della gente non lo fa, sapete. Non possono.
Fece una pausa come per lasciare che le sue parole andassero a segno. Poi: — A me è successo tutto d’un tratto — continuò. — Mi chiamo Jules. Il vecchio Jules. Un tempo facevo il marinaio, ma mi piace pensare. Andavo in una di quelle grosse biblioteche e mi facevo dare ogni genere di libri. Filosofia, metafisica — sillabò queste parole con attenzione — scienza, perfino un po’ di religione. Me li leggevo e cercavo di capire il mondo. Di che si trattava, comunque. Perché mi trovavo qui. A cosa serviva tutta questa storia di nascere, lavorare e morire. A cosa serviva. Perché mai doveva continuare e continuare.
“E perché tutto doveva essere così maledettamente complicato? Perché tutti questi edifici e tutte queste demolizioni? Perché dovevano esserci le città con le strade affollate e gli autobus e i tram e i tassi e quelle scatole di traliccio aperte che si arrampicano su per il cielo per venir riempite poi di pietre e legno? Avevo un solo amico ed è rimasto ucciso cadendo da uno di quegli aquiloni d’acciaio. Non ci dovrebbe essere un modo più semplice per farlo? Perché le cose hanno dovuto essere tanto pasticciate che un uomo come me non è mai riuscito ad avere un solo pensiero chiaro e decente?”
Carr ascoltava con aria sognante. Il whisky stava facendo effetto. Adesso la testa non gli faceva più tanto male.
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