Fece un passo rigido, da sonnambula, verso la porta che dava in camera mia. — Tenta di ricostituire la tua divisione in mezzo a quegli alberi — disse dolcemente, come se stesse parlando a un bambino.
— Annie? — dissi piano, andando a mettermi fra lei e la porta, cercando di ricordare se avevo messo la catena anche alla mia porta esterna. — So dove ci troviamo. È la divisione di Pickett. Longstreet non ha mandato i rinforzi.
Lei mi guardò direttamente. — Non scoraggiarti — disse. Non c’era emozione nella sua voce, ma l’espressione del suo viso era quella che aveva ad Arlington, mentre osservava giù per la collina i corpi dei soldati morti. — È stata colpa mia questa volta. Portali al riparo e ricompatta le file.
Andò avanti così per mezz’ora. Di tanto in tanto si chinava, le mani a toccare il pavimento, come se aiutasse a rialzare i soldati caduti. Poi ricordai che Lee era a cavallo. In sella a Traveller era andato avanti fino al drappello di sopravvissuti e li aveva indirizzati al coperto, fra gli alberi. Quindi stava chinandosi per toccare la spalla dei soldati, per dare incoraggiamento mentre questi arretravano trascinandosi. — Colpa mia — Annie ripeteva piano, continuamente. — Colpa mia.
Ed ero stato io a desiderare che sognasse Gettysburg, per provare la mia teoria. — Non è colpa tua — dissi.
La presi per un braccio, delicatamente, e la ricondussi a letto; lei si sedette e mise di nuovo le braccia attorno alla testiera. — È troppo — disse con voce disperata. — Oh, è troppo.
Non si mosse da quella posizione nemmeno dopo che si fu svegliata. — Ero sotto l’albero di mele e guardavo la casa — disse calma, ma le braccia erano ancora attorno alla testiera di legno. — Solo che questa volta non si trattava di un frutteto, ma di una foresta.
— La linea dei boschi — dissi. — A Gettysburg.
— Sapevo che non era davvero un frutteto e che gli alberi non erano davvero meli, anche se portavano dei piccoli frutti verdi. Era estate. Faceva così caldo che pareva di essere in un forno. Indossavo il pastrano grigio e continuavo a pensare di toglierlo, ma non potevo perché dovevo dire ai soldati che arrivavano l’uno dopo l’altro di andare a rifugiarsi fra gli alberi. Loro cercavano di scavalcare la staccionata davanti al porticato, però non si trattava di una vera staccionata, era simile a un muro e non ci riuscivano. Io non capivo come mai non entrassero nel portico, non vedevo perché c’era fumo tutt’intorno, loro tornavano nel frutteto che era pieno di sangue. Continuavo a ripetere “È colpa mia, è colpa mia” a tutti quelli che mi sorpassavano.
Sedetti al suo fianco sul letto e le dissi che cosa significava il sogno, anche se ormai non speravo più di poterla aiutare con quei racconti, non più di quanto avesse potuto fare Richard con le sue teorie e le sue pillole.
Mi aveva detto che se io le spiegavo i sogni tutto diventava più facile, ma l’avevo fatto per una settimana e i sogni erano peggiorati. Non sarebbe servito nemmeno riportarla ad Arlington, e non avevo intenzione di riconsegnarla a Richard, tuttavia tenerla qui a Fredericksburg non era molto meglio. Prima o poi mi avrebbe chiesto di portarla sul campo di battaglia. Per trovare che cosa? Un’intera nuova batteria di sogni? Spotsylvania? Petersburg? Wilderness, dove i feriti vennero bruciati vivi? Era rimasta una sfilza di straordinarie possibilità. La guerra era solo a metà strada.
— Prometti che non tenterai di interrompere i sogni — mi aveva detto il primo giorno a Fredericksburg. E io l’avevo promesso. Anche Lee aveva fatto promesse. “Non avrei potuto fare altrimenti” aveva scritto a Markie Williams. Ma quando vide ragazzi di sedici anni spezzati come steli di granturco, quando li vide scalzi e sanguinanti e morti, non prese in considerazione la possibilità di rompere le sue promesse?
Mi sentii improvvisamente troppo stanco persino per rimanere in piedi. Andai in camera mia, spinsi giù le bozze dal letto e mi buttai sopra.
Dormii fino alle sei e mezzo. Le tre e mezzo in California. Troppo presto per chiamare Broun. Andai alla caffetteria a leggere le bozze, lasciando che la cameriera dai capelli rossi mi riempisse la tazza di caffè ogni volta che ne bevevo metà, colmandola continuamente di liquido bollente.
Il cavallo di D.H. Hill ebbe le zampe spezzate. Ben ritrovò il suo reggimento, e con questo marciò verso sud-est, verso Sharpsburg. Lee tentò di usare il cannocchiale ma non poté, perché aveva le mani bendate. A.P. Hill arrivò al galoppo con una camicia rossa portando buone notizie, e Ben venne ferito a un piede.
Alle nove chiamai l’albergo di Broun dal telefono della caffetteria. Era partito.
Tornai in stanza, entrando dalla porta esterna. Annie dormiva, abbracciando il cuscino come aveva fatto prima con la testiera del letto. Chiamai la segreteria telefonica. “Stai certo chiedendoti dove sono andato” disse Broun. “Sono a San Diego. Al Westgate. Sono venuto qui per incontrare un endocrinologo. È stato lo psichiatra a indicarmelo. È un esperto di equilibri ormonali a livello cerebrale. Chiamami se hai bisogno di qualcosa, ragazzo.”
— Ci proverò — dissi. Chiamai il Westgate a San Diego. Una voce su nastro mi chiese chi cercassi e, alla mia risposta, mi mise in collegamento con la camera di Broun. Ma lui non c’era.
Mi chiesi dove si trovasse davvero. Forse a incontrare l’endocrinologo, oppure in fila all’aeroporto, oppure da qualche altra parte, e la sua voce gentile e burbera avrebbe continuato a ripetere “Sono a San Diego al Westgate.” L’aereo per San Diego avrebbe potuto cadere, ma tutto sarebbe rimasto lo stesso. La voce sul nastro avrebbe continuato a mandarmi il messaggio. Mi chiesi se non fosse questo che stava davvero accadendo, se i sogni non fossero una sorta di messaggio preregistrato lasciato da Lee, mentre lui era scomparso.
Andai a prendere la macchina. Prendete corso Lafayette fino a Sunken Road. Non potete sbagliare. Il farmacista aveva ragione. C’erano segnali ovunque: segnali autostradali per la US 3, segnali più piccoli, color marrone, del Parco Nazionale a ogni isolato di corso Lafayette, un grande segnale marrone all’entrata, un segnale di “Chiuso dopo il tramonto” vicino ai cancelli di ferro, il cartellino che indicava il Tour Storico di Fredericksburg, n. 24, un segnale bianco con “Cimitero Nazionale”. Sunken Road era intervallata da segnali regolari bianchi e verdi, con il nome della strada. Girai e mi fermai di fronte al Centro Visitatori. Erano le nove passate, per cui il Centro e anche la Libreria dovevano essere aperti, ma non entrai. Andai verso la collina a vedere le tombe.
Non era così terribile come avevo pensato. La collina era sistemata a terrazze erbose larghe a sufficienza per una fila di tombe, su cui svettavano le pietre bianche, in tante file ordinate convergenti verso la cima su cui svettava una bandiera sostenuta da tiranti di pietra; ma la collinetta non era nemmeno la metà, per estensione, di quella di Arlington, tanto da potersi a malapena definire collina.
La piana sottostante, dov’erano stati i corpi, era coperta di erba e percorsa da alberi e sentieri di mattoni. Edera e azalee circondavano il Centro Visitatori. Sembrava il cortile di una villetta qualunque.
Ebbene, era stata una guerra di quel tipo la Guerra Civile, o no? Una guerra da cortile di casa, combattuta fra campi di granturco e porticati e strade erbose di campagna, una piccola guerra domestica che aveva ucciso duecentoquattromila ragazzi e uomini direttamente e altri quattrocentomila con dissenteria, febbre biliare e infezione da arti amputati. Ma nonostante le file ordinate di tombe che si allontanavano come raggi non si aveva l’impressione che qualcuno fosse mai stato ucciso, in quel luogo. Non era per nulla come ad Arlington.
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