Grasso… quello lo fece pensare. A un altro dei poveri viaggiatori, un suo compagno di viaggio, che aveva colpito il muro con un rumore di metallo contro metallo. Quello che aveva sulle mani era probabilmente il grasso della Norton — si era forse aggrappato a lei mentre scivolava nel vuoto, in parte per attaccarsi a qualcosa di familiare e in parte per salvare la sua moto ? — non riusciva a ricordarlo. La rivide solo rotolare via, un arco piatto verso il margine dell’atmosfera, con le ruote trasformate in ovali e le corde che vibravano inutilmente intorno ai mozzi mentre il motore perdeva tutti i pezzi. Nel petto già sanguinante, provò tristezza anche per quell’ultima vista. Pezzo d’idiota… Con le lacrime agli occhi, si rese conto di non aver provato altro se non dolore e tristezza da quanto aveva scoperto di essere ancora vivo.
— È ora di andare — Axxter aprì di nuovo gli occhi. Probabilmente c’era un sacco di roba di cui occuparsi, se doveva continuare a vivere. Sapeva bene di non potersi limitare a stare aggrappato al muro.
Per la prima volta si chiese esattamente cosa lo tenesse attaccato alla parete. La sua solita nausea — un altro sintomo di vita — gli serrò la gola quando guardò verso il basso e vide la barriera di nuvole stagliarsi contro la curva dell’edificio, molto più sotto di lui. Le corde dei suoi stivali gli avevano saldamente fissato i fianchi e le caviglie al metallo, mentre i piedi non toccavano la superficie. Le corde gli bloccavano anche la vita e gli appiattivano il sedere contro il Cilindro; il freddo dell’acciaio gli gelava il retro delle cosce e il coccige.
Ma c’era qualcos’altro, molto meno vivo di quanto lo fossero le sue corde. E più spesso: una corda di plastica e tela intrecciate con fili colorati i cui capi d’ottone spuntavano fuori da quella fune rozza. Si accorgeva solo ora che gli attraversava il petto: in alcuni punti gli dava fastidio sui lividi e c’era una specie di nodo sulla spalla da cui partivano fili colorati che sembravano volerglisi infilare nelle orecchie. Qualcuno l’aveva legato là sopra e aveva intrecciato quella grezza fune come una specie di culla che reggesse il suo peso; qualcuno che non aveva avuto fiducia nelle sue sottili corde, che non sapeva quanto fossero forti… in realtà, se queste non avessero retto, egli dubitava che quello strano intreccio l’avrebbe tenuto fissato al muro, impedendogli di cadere a capofitto verso le nuvole. Gli sembrava che solo chinando il capo per guardarla, quella corda si rompesse.
Quella fune di fortuna proseguiva dalla sua spalla fino a una specie di cappio al polso che gli teneva la mano destra sollevata sopra la testa. Axxter guardò in alto per rendersi conto se poteva liberarla. Fu allora che la vide, mentre lo stava osservando.
— Ciao. Ciao. — Lahft gli sorrise, con gli occhi un po’ addormentati, come se la sua precipitosa caduta l’avesse svegliata da un pisolino. — Ciao, Ny, ciao. — Il sorriso dell’angelo divenne ancora più radioso.
Axxter girò il capo per vederla meglio. Era seduta con le gambe a penzoloni in una specie di nicchia triangolare scavata nella superficie metallica. — Ciao, ehi lassù. — Egli annuì e cercò di imitare debolmente il suo sorriso. Ora sapeva chi gli aveva intrecciato intorno quella corda. Per impedirgli di cadere di nuovo.
Riuscì a liberarsi la mano e la mosse per riattivare la circolazione sanguigna. Ora cominciava a ricordare qualcosa di più. La caduta, la moto e il sidecar che svanivano nel vuoto, i guerrieri della Folla Devastante che volavano verso le nuvole sottostanti…
Le nuvole. Il grande sorriso dell’angelo scomparve per un istante; tutto quello che Axxter vedeva in quel momento erano quei grandi banchi bianchi e grigi, il lento oceano di colline e crepacci che si avvicinavano a lui ad altissima velocità.
Aveva visto degli angeli. Ricordò anche quello. File e file di angeli, in ogni direzione, nell’ombra del crepuscolo sotto la barriera delle nubi. Le membrane gonfie che avevano sulle spalle sembravano pallidi soli, attraversate dalle morbide vene blu che in quella penombra sembravano grigio cenere. Mentre cadeva a braccia aperte con il vento che gli correva sul petto e il fiato corto, intorno a lui, in qualunque direzione si girasse, non vedeva altro che angeli.
Era l’ultima cosa che ricordava. Nient’altro. Poi si accorse nuovamente di Lahft, che si sporgeva in avanti con le mani aggrappate al bordo del metallo e aspettava pazientemente.
— D’accordo — Axxter annuì. — Ho capito. Sei tu che mi hai afferrato. Mentre stavo cadendo. È esatto?
Lei distolse lo sguardo, riflettendo su quella frase. Sembrava quasi di vedere le rotelline del suo cervello muoversi velocemente.
— Afferrato — Lahft si morse le labbra, fissando nel vuoto. — Cadere… — Improvvisamente spalancò gli occhi, allarmata, e si precipitò ad afferrare il polso di Axxter, tenendolo saldo nella sua presa.
— No… no — gentilmente, Axxter si liberò la mano. — Non sto cadendo adesso. Stavo cadendo prima. Ti ricordi?
— Prima… — Per lo sforzo che faceva concentrandosi, il suo viso si rabbuiò. — Afferrare. Afferrato! — L’angelo si abbracciò, come stringendo un invisibile corpo a se stessa. — Ti ho afferrato prima!
Di nuovo quell’elastico senso del tempo che aveva l’angelo: non sarebbe mai riuscito a svilupparlo del tutto. Axxter si tolse quella corda di fortuna dal petto. — Bene… — quello spiegava un sacco di cose. L’angelo doveva trovarsi vicino all’accampamento della Folla, l’aveva visto spesso, anche se a distanza di sicurezza, quando tutta quella merda era letteralmente precipitata giù. O forse si trovava insieme a tutti i suoi amici, quei felici angeli che abitavano sotto le nuvole. Ed era stata solo la fortuna a farlo cadere sul soffice tetto del loro mondo, decisamente il miglior luogo possibile. A ogni modo, lei era là per lui; l’aveva afferrato saldamente… avrebbe tanto desiderato ricordarsi di quella parte. Malgrado fosse stanco e provato, il corpo nudo dell’angelo che lo guardava con i piedi che penzolavano vicino al suo viso, gli risvegliava strani istinti. Incorreggibile: sospirò e scosse il capo. La corda si ruppe e Axxter ne buttò via i due capi. Si girò, e le corde di sicurezza dei suoi stivali si sistemarono nella nuova posizione. Ora aveva il viso e il petto rivolti verso il muro; allentò le corde della vita in modo da potersi spostare un po’ all’indietro per essere più comodo e guardare Lahft.
— Mi hai afferrato, esatto. D’accordo… — A poco a poco tutti i pezzi stavano andando al loro posto. — Cristo, devo averti colpito con la forza di una tonnellata di mattoni.
Lei girò il capo e sorrise stupita.
— Quando ti ho colpita — e con un pugno colpì il palmo dell’altra mano per farle capire. — Quando tu mi hai afferrato. Bum! È questo che è successo? — Stava perdendo tempo, lo sapeva. C’era un sacco di roba di cui avrebbe dovuto occuparsi invece, di indagare a fondo sulla meccanica del suo salvataggio. Per esempio, avrebbe potuto cercar di capire dove diavolo si trovasse e se era ancora troppo vicino a quelli che volevano fargli la pelle. Quello doveva avere priorità assoluta. Eppure…
— Bum! — Lahft annuì saggiamente, ancora con le braccia strette intorno a sé. — Poi. La caduta… vero?
— Caduto — Egli poteva immaginarsela: il suo peso morto che trascinava con sé l’angelo che lo teneva stretto.
— Una lunga, lunga caduta. — Lei indicò le nuvole e qualunque cosa ci fosse al di sotto. — Così io divento grande — la membrana traslucida che aveva sulle spalle si espanse per dargli una dimostrazione; si sollevò un po’ dal suo sedile di metallo, mentre i gas gonfiavano la membrana. — Allora. Basta caduta — ancora il suo sorriso.
Читать дальше