K.W. Jeter - L'addio orizzontale

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L'addio orizzontale: краткое содержание, описание и аннотация

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Nella letteratura gialla, si sa, c’è stato
di Raymond Chandier, e in fantascienza
di Leigh Brackett, che in Italia è stato tradotto, purtroppo, con un altro titolo. Sono metafore suggestive, un modo laconico per attirare la nostra attenzione su avventure disperate, forse ai confini del possibile, ma non per questo meno profondamente umane. È perciò che, giocando sulle parole, abbiamo deciso di tradurre letteralmente il titolo di questo romanzo di K.W. Jeter: una storia intensa che ci ricorda i maestri del cyberpunk e dove ogni azione, ogni personaggio sembra fare il doppio gioco, in un intrigo che si risolve solo alla fine. Jeter è più che una promessa della fantascienza, e non esitiamo a raccomandare L’addio orizzontale ai nostri lettori come una storia «diversa» , forte e insolita, ma credibile e senz’altro avvincente come un romanzo hard-boiled.

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Ci provò ancora. — Guarda. — Lei obbedientemente seguì il suo dito. — Il cielo… d’accordo? — Lei annuì. Perlomeno capiva qualcosa. — D’accordo, adesso è così. — Prese gli angoli delle tende e le tirò, chiudendosi nuovamente in uno spazio limitato. La luce del sole filtrava attraverso il tessuto. — Adesso è ancora piccolo. Come era prima. — Le ultime parole erano disperate; sto facendo casino, pensò. Non c’era nemmeno vicino. Riaprì le tende, lasciando vedere il cielo. — È. — Le richiuse. — Era. — Poi scosse il capo con un sospiro; lascia stare. Qualcuno, forse un esperto in semantica, avrebbe saputo spiegarle quella differenza; lui non ne era in grado.

Eppure lei continuava a sorridergli. Il che lo faceva solo sentire più frustrato. Una cosa divertente in un mondo di cose divertenti. Si stupì che non fosse addirittura scoppiata a ridere di lui. Forse quello era il pregio di essere un angelo; tutte le cose tristi sono nell’altro mondo, il mondo del prima e dell’era. Lei non deve preoccuparsene affatto. Se si preoccupa di qualcosa.

Si chiese quanto ricordasse di quello che le era successo. Ricordare… era tutta da ridere. Forse era caduta come un sasso attraverso le nuvole, verso qualunque oblio ci fosse al di sotto. Si chinò a raccogliere una torcia a batteria tra tutti i suoi attrezzi ordinati sulla piattaforma. Gliela puntò sul viso e l’accese: una lingua di fuoco danzò nei suoi occhi.

Per un attimo Lahft sorrise davanti a quella luce, poi il suo viso si rabbuiò. Si spinse indietro appoggiando le mani al tavolo.

Bene, bene. C’era qualcosa dopo tutto… forse nel profondo delle cellule, quell’organismo possedeva una memoria. Axxter spense la torcia — gli sarebbe sembrato di torturarla — e la lasciò cadere.

— Non… qui. — La sua voce sembrava preoccupata e allontanò lo sguardo da lui, guardando verso il muro sopra la piattaforma. — Un posto luminoso. Come quello. — E indicò il punto in cui c’era stata la luce della torcia.

Non esisteva il tempo, non c’era differenza tra prima e adesso… Lei crede che stia succedendo ancora da qualche parte. Che accada sempre, senza fine, in quel luogo luminoso. — Là in alto? — Axxter indicò il settore di muro su cui aveva viaggiato.

— Sì. — Lahft annuì, ma il suo sorriso era scomparso, mentre con il viso corrucciato si sforzava di comprendere. — Tutto luminoso e… rumoroso.

— Rumoroso?

L’angelo chinò indietro la testa, con gli occhi chiusi. E urlò.

Sembrò che ogni morto della zona distrutta, ogni faccia bruciacchiata contro le pareti nere, fosse stata registrata e riprodotta perfettamente. Le tende della piattaforma svolazzarono, come per dimostrare la loro partecipazione a quel tetro ricordo.

L’urlo avvolse Axxter. Non si fermava: l’angelo aveva i muscoli del collo tirati, le sue corde vocali vibravano. Lui fece un passo indietro, spinto via dall’onda sonora. Inciampò nella torcia che aveva fatto cadere e scivolò, atterrando su un fianco. Si mosse a gattoni per allontanarsi da quell’urlo, ma si trovò sul bordo della piattaforma. Al di sotto, la massa di nuvole raccolta intorno alla curva dell’edificio. Anche se fosse caduto, non sarebbe riuscito a sfuggire a quell’urlo che gli penetrava nelle ossa.

Poi il grido si placò. Rimase solo il sibilo del vento; Axxter rotolò su un fianco e si girò a guardare l’angelo sul tavolo. Sorrideva di nuovo, ma in modo diverso. Le sopracciglia erano leggermente incurvate e non aveva più gli occhi spalancati. Non è sciocca come pensavi, tacchino. A fatica riuscì a rialzarsi. Alcuni strumenti medici sparsi testimoniavano la sua caduta. Deve aver visto tutto, mentre era sospesa in aria, quando il Centro dei Morti ha spalancato il muro nel tentativo di procurarsi dei folli collaboratori orizzontali. Aveva visto tutto ed era rimasta a guardare: strani esseri che facevano cose divertenti. Una luce forte, selvaggia e un rumore interessante. Eppure la curiosità ha il suo inevitabile prezzo.

Lei non si curava di Axxter. Guardava dietro alle sue spalle, tutta assorta a osservare la propria membrana ricostruita. Il biofoglio argentato rifletteva la sua espressione impegnata.

Tutto bene, tesoro. Si diresse sotto il tavolo, passò vicino alle sue gambe nude e penzolanti e tirò fuori la sua cassetta da lavoro. Ora c’è un piccola sorpresa per te.

Sul biofoglio comparve l’immagine di una stella che si muoveva e danzava, nascondendo il viso riflesso del’angelo. Lei restò senza fiato e spostò la testa, allontanandosi dal sottile metallo che aveva preso il posto della sua vera pelle. Si girò sbigottita e fissò Axxter.

Egli si picchiettò una tempia, ammirando il suo lavoro di grafico. — Tosto, eh? — Non gli importava che lei capisse come funzionava. Era importante che vedesse quello che lui sapeva fare. Selezionò CANCELLA e quella breve sequenza scomparve. — Guarda adesso — le disse.

Lo sguardo sospettoso dell’angelo si spostò dal viso di lui e tornò a guardare la membrana. Il biofoglio, di nuovo bianco, rifletteva la sua faccia. Lo guardò, e guardò la cassetta che lui aveva tra le mani, mentre il suo sorriso lasciava posto a un’espressione pensierosa.

— Ti è piaciuto? — Godeva del piccolo potere che gli dava la sua abilità. Un po’ della sua magica arte grafica; non si trova spesso un pubblico così ingenuo su cui far presa. — Molto carino, non credi?

Lahft piegò la testa, riflettendo. Poi fece un mezzo sorriso. — Era… era… impressionante — disse lei.

— Oh… capisco. — Egli annuì, ricambiando il debole sorriso. — Era, eh…? Guarda questo, allora. — Aveva un certo repertorio dimostrativo e scelse un’altra immagine. Diresse il segnale direttamente sul biofoglio — se avesse voluto, avrebbe potuto riflettervi l’immagine indirettamnete — ma in quel modo non dovette ricorrere alla Piccola Luna, che si trovava distante, da qualche altra parte della superficie del Cilindro; così lo schema apparve immediatamente sulla sottile membrana dell’angelo.

Come se l’angelo sentisse i puntini neri formare un’altra immagine, guardò dietro alle sue spalle. Il viso di un personaggio dei cartoni animati, evidentemente un uomo, comparve sul biofoglio: al collo aveva un collare e una cravatta. Gli occhi ovali di quel viso diventavano sempre più larghi, come se fossero stupiti; comparve anche una vignetta.

WILMA! TU… E BARNEY!? BENE, CHE IO SIA DANNATO!

Non poteva dire se lei riuscisse a leggere le parole pronunciate da quell’antico e famoso viso. Forse era già abbastanza che gli angeli potessero parlare… e lui avrebbe potuto essere l’unico a saperlo.

La membrana, gonfiata dai gas dializzati dal sangue, si era ingrossata. Anche il viso del cartone animato era diventato più grande ed erano comparsi più puntini per delineare meglio l’immagine ed annerirla. Axxter guardò la membrana dell’angelo con occhio critico e professionale. Le cuciture con cui aveva innestato il biofoglio resistevano alla tensione crescente; fu orgoglioso della perfezione che aveva raggiunto nella sua arte. Lo stesso biofoglio era più elastico e forte della sottile pelle che aveva sostituito: non c’era alcun pericolo che potesse lacerarsi.

Selezionò un ciclo di RIPETIZIONE per il cartone. Lei lo guardava con un sorriso sinceramente divertito. Lui era diventato una delle cose divertenti del suo mondo.

— L’hai fatto tu. — L’angelo toccò la membrana, coprendo il cartone. — Tu l’hai fatto esistere — e lo guardò ammirata.

— Sì… sono stato io. — Axxter s’immaginò qualcos’altro di lei, o degli angeli in generale. Non è che non avessero alcun concetto di tempo — non era difficile intuire il passato fatto o stato tra tutti gli altri tempi verbali — ma probabilmente a loro non importava un bel niente del tempo. Per loro si trattava di una dimensione eliminabile. Lei stava giocando con me quando faceva la parte dell’imbranata. — Ti è piaciuto?

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