Patricia McKillip - Voci dal nulla

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Rinchiusa nell’Avemo, il più impenetrabile carcere orbitale di massima sicurezza dell’intera galassia, Terra Viridian sconta la sua condanna senza poter sfuggire alla visione che le ha fatto massacrare senza motivo apparente più di millecinquecento persone. Una visione apocalittica, che lei stessa non comprende e all’esistenza della quale nessuno crede, ma la cui voce può significare un contatto totalmente nuovo per il genere umano. La scena cambia quando intorno a Terra iniziano ad agire strani personaggi: il Mago, capace di suonare Bach per ore e ore immerso in una profonda trance, Aaron, il poliziotto alla ricerca della gemella di Terra -Viridian misteriosamente scomparsa, e la Regina di Cuori, la musicista mascherata in grado di plasmare sonorità sempre nuove. Solo quando tutti questi destini si incroceranno nell’Averno, guidati da una voce a loro sconosciuta, arriverà il momento di giocare l’ultima partita.

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— Quale visione?

Sobbalzò al suono della sua stessa voce. Lanciò un’occhiata truce alla sua ombra. Il dottor Fiori aveva ragione. La donna mascherava i propri pensieri; non c’era alcun mistero, solo una pazza che non poteva affrontare il risultato delle proprie azioni.

— Non riesce nemmeno a dare al sole il colore giusto — brontolò. Rimase di nuovo in silenzio, completamente immobile. Il sole rosso. La sabbia viola. Il mare… — Non ci sono mari nel Settore Deserto…

La spia luminosa dell’intercom lampeggiò; lui premette il pulsante. — Klyos.

— Nils, signore. Il poliziotto del Settore Costadoro è appena arrivato. Aaron Fisher. Volete vederlo subito?

— Non adesso. Lasciagli il tempo di riflettere.

— Ha chiesto il permesso di assistere al concerto. Signore, non credo che sappia con precisione perché è stato chiamato quassù.

— È sospettato di cospirazione — disse severamente Jase.

— Un’accusa ufficiale?

— No. Una intuizione. Non voglio che compaia nelle registrazioni finché non l’avrò formalizzata. Non è in arresto, ma non l’ho nemmeno invitato qui per un concerto. Dagli da mangiare e sistemalo nel dormitorio delle guardie. Basterà a tenerlo fuori dai guai.

— Dovrebbe… — Si interruppe. — Avete parlato con Michelle Viridian. È…

— Tutta diversa da una cospiratrice incallita. Non è tanto pazza da pensare di poter fare evadere sua sorella, anche se sospetto che l’idea le sia venuta.

— Assomiglia a Terra?

Jase sospirò, ricordando le mani tese attraverso la bolla verso Michelle. Provò un improvviso senso di depressione, il peso di un’atmosfera umida e soffocante.

— No — disse, rispondendo alla domanda indiretta di Nils. — In lei non c’è niente che possa aiutare a capire Terra. Ammesso che qualcuno lo desideri. Vorrei davvero che Fiori l’avesse lasciata stare.

— Vi sentite bene? Qualcosa non va?

— Per il momento no.

Ci fu un’altra pausa. — Volete che venga lì? — chiese improvvisamente Nils. Jase scosse la testa.

— No. Va’ ad ascoltare la musica. Forse ci andrò anch’io, prima di cominciare ad aver paura delle ombre.

— Non c’è assolutamente niente che faccia paura a uno come voi — disse in tono serio Nils.

Più tardi Jase si fermò sulla soglia del circolo ricreativo del Livello D, l’unico locale abbastanza grande per un concerto. Avevano coperto la piscina, rimosso le attrezzature. Lungo le pareti era allineata una doppia fila di guardie di sicurezza, volontari per un buon 80 per cento. I detenuti sedevano sul pavimento e sulle sezioni mobili di parete che coprivano la piscina. Le loro teste rapate riflettevano bizzarri colori sotto lo spettrale splendore delle luci del palco. Non parlavano molto, quasi non si muovevano, tranne quando qualcuno qua e là lanciava di nascosto un’occhiata rapida e incredula alla zona delimitata da corde che costituiva il palco.

La scena meritava davvero un’occhiata. L’arpa a canne, una specie di lisca di rame e ottone, occupava tre quarti del palco. Dietro, i grandi cubi traslucidi erano impilati come una scultura aliena. I gas contenuti nel loro interno cominciavano a scaldarsi, ad acquistare lentamente colore. Nebraska era ancora alle prese con le luci, e inondava l’aria di viola, verde, arancione. Il Mago si era dipinto il viso con una galassia di colori turbinanti e accordava, tra tutte le cose possibili, un antico pianoforte ammaccato. Pizzicò un’ultima nota, fece scorrere il pollice sui tasti in un vivace glissando che provocò movimento di teste e riflessi colorati. Nebraska provò a suonare una canna. Il rame sputò azzurro elettrico verso una seconda canna; il vetro emise un’alta nota risonante. Nebraska oscurò il palco.

L’attimo seguente tutta la sala si oscurò. La breve oscurità aumentò la tensione. Il mormorio delle guardie cessò; Jase udì lo scricchiolio del cuoio, lo stridore del metallo. Che stupido, si disse, pensando alle catene e alle sbarre ancora attaccate alle pareti. Stupido, stupido… avrò la pelle di Jeri, per questo! Poi il locale fu un’eruzione di luce.

La Regina di Cuori scosse capelli rosso-rosa dal viso modellato in oro puro e abbassò le bacchette sui cubi. Il cubo colpito fumò di scarlatto. Lei creò un battito di cuore dal rosso scarlatto e dal blu scuro, fuoco e notte, che infranse come vetro il silenzio di Averno. Quasar, con i capelli splendenti dei colori dell’arcobaleno, saltò sul palco con un grido da strada che doveva provenire direttamente dalle fogne del Settore Lumière. Il Mago, incandescente, iniziò un duetto fra il piano e i suoi neurocavi. Nebraska, alla cassa sonica, con i capelli lisci e i baffi pendenti imperlati dalla luce, regolò le onde sonore dei neurocavi, riducendo lo stesso Mago a uno strumento. La luce giocava sulle gelide ossa dell’arpa a canne. Una corrente d’energia scricchiolava lungo la struttura portante. Il Professore intessé un glissando di note selvagge fra i colori del Mago.

La voce di Quasar, bassa e roca, guizzò nella trama:

Prendi la carta della Fortuna,
scopri la Regina di Cuori;
ascolta il monito della Fortuna,
copri l’Asso di Picché.
E vola, vola, vola
a quell’oscuro mazziere nel cielo.
L’amore fugge, la notte scende,
Nova ti irretisce di luce…

Una canna andò in pezzi alle vibrazioni soniche; il Professore allontanò i frammenti con un calcio senza fermarsi, traendo suoni secchi e carezzevoli dalle ossa. Un’altra canna si spezzò con una scarica luminosa. Quasar lanciò un altro grido. Il Mago svanì in una negazione di luce. Il palco si mutò in un nebbioso azzurro cupo di mezzanotte. Dal buio provenne un dolce, tranquillo fraseggio di musica antica.

Jase applaudì, sorpreso. Non c’erano teste chine fra il pubblico: nessuno avrebbe potuto dormire durante un’esecuzione del genere. Indugiò, con la voglia si ascoltare ancora. D’un tratto vide Jeri Halpren sorridergli con aria trionfante. Ma continuò lo stesso ad ascoltare.

La musica veleggiò in reami più caldi; i cubi rullarono un pulsare illanguidito. Quasar cantò una ballata d’amore, lenta e intima, che richiamò alla mente di Jase, per la prima volta in molti anni, l’immagine di se stesso seduto sulla riva di un fiume nel Settore Mediano con una compagna di giochi, una ragazzina dagli occhi verdi come rane, dai capelli gialli come raggi di sole che continuavano a ricaderle sul viso. La canzone seguente li condusse nel gelido spazio scintillante. I suoni si librarono nella tenebra notturna: le perpetue scariche di statica, il mormorio di metallo gelido di un’astronave aliena alla deriva, uno spruzzo di eruzioni solari, il debole e costante pulsare della coscienza: il battito del cuore. L’arpa a canne passava di colore in colore. I cubi risplendevano luminosamente di gas stellare. Le note si raccoglievano in un unico suono; la voce di Quasar echeggiava colori increspati dall’aura del Mago. Uno schema lottò per emergere dalla nebbia, emerse finalmente mentre il Mago si perdeva in maree cangianti: la gentile, misurata musica del passato.

Il palco divenne rosa; i musicisti si ritirarono per rifarsi il trucco. Jase si allontanò nel disciplinato silenzio di Averno, ancora sorpreso. “Dovrò raccontarlo a Sidney Halleck”, si disse. “Non avrei mai creduto che mi piacesse.”

Ritornò al Mozzo. Ancora un piccolo, fastidioso dettaglio e poteva andare a letto. Tutti quanti, pensò scontrosamente, sono così maledettamente innocenti. Persino il poliziotto convocato su Averno non provava affatto l’impulso di nascondersi per il rimorso; voleva divertirsi. “Se non c’è niente di cui preoccuparsi”, pensò, “perché mi preoccupo? E non c’è niente.”

Convocò Aaron Fisher e si sedette ad aspettarlo.

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