Il Mago non rispose. Dal suo viso scomparve lentamente ogni traccia d’espressione. Spalancò gli occhi; sembrò vulnerabile, assorto, come se sognasse a occhi aperti. Il delicato color viola che Jase aveva scorto nella visione di Terra lo avviluppò come una nebbiolina rada, e Jase ricordò in quel momento che il Mago era rimasto immobile nell’infermeria a fissare Terra per tutto il tempo, mentre ogni altro guardava la Macchina dei Sogni.
Si sentì rizzare i capelli per la sorpresa. Gli parve che la sua stessa voce arrivasse da molto lontano. — Signor Restak, se non vi togliete dalla soglia vi ucciderò. Sto per attivare lo schermo.
— Che mi uccidiate — disse il Mago — non è nella visione.
La scarica dello storditore, sparata senza mirare da sotto la scrivania, spinse via il Mago dalla soglia come una manata. — Dio del cielo — disse Jase, incredulo. E attivò lo schermo.
Lo schermo esplose in un bagliore lucente. Jase si buttò all’indietro, momentaneamente accecato. La soffice massa della sedia ad aria gli cadde addosso, intralciandogli i movimenti, come un goffo abbraccio d’amante. Poi gli pesò addosso, rifiutandosi di muoversi. Jase si ribellò a quella costrizione, meravigliato, imprecando. Poi la vista gli si schiarì. Si ritrovò a fissare la bocca di un fucile laser. Terra Viridian era acquattata accanto alla sedia, e i suoi occhi lo inchiodavano quanto il fucile. Il Mago, seduto sulla sedia rovesciata, si asciugava il sangue che gli colava da un occhio, e teneva intrappolato Jase. Con le dita sfiorava la tastiera.
— Magnifico — disse, senza più l’aria sognante. — Adesso ci serve solo un po’ di Bach.
Pochi minuti più tardi il Mago barcollò lungo il tunnel di trasporto in una nebbia onirica di ametista e sangue. Lungo la pista erano disseminati come bambole rotte i corpi fusi della squadra robot. Le telecamere di sicurezza, una decina di occhi del computer del Mozzo, il guardiano dai cento occhi, erano state accecate da Terra. Il Mago non aveva idea di dove fosse la donna. Lei l’aveva trovato; lei non gli aveva lasciato scelta. Lei gli aveva mostrato la strada attraverso il labirinto di Averno: la sua mente era stata il filo che lui aveva seguito. Adesso era scomparsa di nuovo, si muoveva di nascosto davanti a lui o dietro di lui, da qualche parte lungo il percorso che avrebbe dovuto portarlo al Pianto volante. Lui aveva suonato per la libertà della donna; quello di cui ora aveva bisogno era la fortuna degli idioti.
— Una Scala Matta — mormorò. La testa gli pulsava, il sangue continuava a colargli nell’occhio. La gola gli bruciava di sete. Poi vide il sole rosso, che proiettava una luce sanguigna su un mondo alieno. La visione è luce. “Dio”, pensò in un febbrile slancio filosofico, “beviamo la luce come aria. Come muteremmo, che sete svilupperemmo sotto un sole morente?”
I suoi passi risuonavano sordamente nel tunnel. Aveva lasciato il direttore Klyos legato e imbavagliato, ma per quanto tempo sarebbe rimasto in quelle condizioni? Una volta che fosse riuscito a liberarsi, o fosse stato liberato, cosa avrebbe fatto?
Avrebbe avvertito i moli.
Il Mago allungò il passo. Il raggio che univa gli Anelli al Mozzo sembrava non finire mai. Si mise a correre, aspettandosi di essere ucciso a ogni passo, aspettandosi che un robot morto si muovesse, si girasse verso di lui ed emettesse un lampo di luce, l’ultimo respiro. Ma il passaggio era una zona desolata, un deserto inaridito di cavi liquefatti, di circuiti fusi; la sua presenza era completamente inosservata. Fraseggi della musica che aveva suonato dopo aver scovato tutti i toni e i mezzi toni che l’enorme computer conteneva gli fornivano il ritmo su cui misurare la corsa.
“Funzionerà”, pensò meravigliandosi per il proprio genio. “Funzionerà. Se solo non mi uccidono prima. O se non uccidono Terra. Se solo…”
Vivide scintille tranciavano le ombre dietro i carrelli da trasporto vuoti. Poi, alzando le spalle al destino, il Mago avanzò, mentre l’aura si dissipava, finché fu semplicemente un ferito, sopravvissuto a un carnaio meccanico, alla ricerca disperata della propria razza.
La porta del tunnel si aprì con uno stridio di metallo. Il Mago continuò ostinatamente in quella direzione. La squadra di tecnici, con il viso schermato contro il riflesso del metallo incandescente, lo fissò senza espressione. Un piccolo esercito di guardie lo superò di corsa nei carrelli da trasporto.
Altre guardie cercarono di afferrarlo, senza brutalità ma con decisione. Si sentì puntare un fucile alla tempia. Qualcuno gli sfiorò il viso.
— È uno dei musicisti.
“Non sparate sul pianista”, pensò follemente. Un dito gli tastò l’occhio, facendolo sobbalzare.
— Cos’è capitato? Cosa combinano, là dentro?
— Qualcuno mi sparava addosso. Mi sono tuffato in uno squarcio della parete.
— Klyos è vivo?
— Era vivo quando l’ho visto.
— Cosa fate qui?
— Aveva chiesto di vedermi; non ho fatto in tempo a scoprire perché. — D’un tratto cominciò a tremare in modo molto convincente. — Dov’è un pronto soccorso? Non sopporto il sangue.
— Andiamo! — gridò una voce dai carrelli da trasporto, e lui rimase improvvisamente solo, fuori dal tunnel, mentre i carrelli sciamavano via e la squadra di tecnici raccoglieva gli attrezzi senza badargli. Mosse un passo. Una figura incappucciata si girò verso di lui.
— Mago! — Indicò con la mano. — C’è un pronto soccorso in fondo a quel corridoio. Vi suggerisco di restare nei vostri quartieri.
Lui continuò a camminare finché fu fuori vista. Poi si mise a correre.
Jase, sepolto sotto la sedia ad aria, la bocca piena di stoffa, lottò per liberarsi le mani dai neurocavi del Mago. “Bach”, pensò con furia. “Bach. Maledetti musicisti…”
Con la coda dell’occhio scorse uno stivale e smise di agitarsi.
Smise di respirare. Udì un’imprecazione sommessa. Poi sentì che gli toglievano di dosso la sedia ad aria, che qualcuno scioglieva il cavo che gli legava i polsi. Girò dolorosamente la testa e vide un’uniforme grigia con il sottile cordoncino d’oro lungo la cucitura: un’uniforme terrestre.
Aaron. Emise una protesta soffocata. Aaron gli liberò i piedi, gli tolse il cavo e il bavaglio. Per un istante lo tastò.
— Siete ferito?
— No — disse Jase acidamente. Si mise a sedere. — Che diavolo siete tornato a fare? Avreste potuto venir ucciso.
— Ho corso il rischio. Non siete ferito?
— No. — Si alzò in piedi, si chinò sulla scrivania, ma dell’intercom rimaneva ben poco. Aaron continuava a fissarlo.
— Terra non vi ha ucciso.
— Vi sembro un cadavere?
Ma Aaron aveva spostato bruscamente l’attenzione. Fissava il sottile cavo colorato che reggeva in mano. Fece per dire qualcosa, ma non emise suono. Jase premette a casaccio i pulsanti luminosi; non ottenne risposta.
— Forse sono ancora nel Mozzo, nascosti. Sbrighiamoci a…
— Sono? — disse bruscamente Aaron.
— Quel musicista pazzo…
— Michelle?
— No, il Mago. Restak. Possiamo ancora raggiungere Scalo Uno. Potrei mettere il Mozzo in stato di difesa, ma… — Si massaggiò una caviglia, pensando furiosamente. Aaron posò il cavo sulla scrivania.
— Il Mago.
— Ha programmato lui le nuove parole d’ordine d’atterraggio. Ha usato la mia impronta vocale: non c’è possibilità di annullarle.
— È stato il Mago.
— Sta portando via Terra. Ma non potrà più farlo, se riusciremo a precederlo a Scalo Uno. Dirò a Nils di mettere il Mozzo in stato di difesa quando arriverà qui, in caso di…
— Il Mago del complesso?
— Signor Fisher, il vostro cervello funziona sempre così rapidamente?
Aaron spostò lo sguardo dal cavo. Aveva di nuovo l’aria intontita, lo sguardo sofferente, stupito. Jase disse, teso: — Cosa c’è adesso?
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