Patricia McKillip - L'arpista del vento

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La terra di Hed, è risaputo, non è mai stata una fucina di eroi. Tutti i suoi abitanti – compresi i principi che la reggono — sono contadini, ed anche Morgon, Signore di Hed, è un contadino. Ma non solo questo. Perché in un mondo da cui la magia è misteriosamente scomparsa in un remoto passato, e nel quale il sapere esoterico è affidato ai Signori degli indovinelli, Morgon può essere considerato un adepto, il miglior allievo della scuola di Caithnard, unico risolutore di un indovinello rimasto inspiegabile per oltre settecento anni. E poi Morgon ha tre stelle in fronte, identiche a quelle incise su un’arpa che solo lui può suonare e sull’elsa di una spada che solo lui può impugnare. Così, senza volerlo, il principe di Hed viene coinvolto in un viaggio fantastico e in un’avventura misteriosa, nel viaggio verso la montagna di Erlenstar assieme all’arpista del Supremo, per cercare risposta a una domanda che neppure lui ancora conosce. Con l’aiuto di Raederle, la donna che ama e per la quale ha vinto una sfida, Morgon affronterà un difficile cammino esistenziale e avventuroso, cercando la soluzione dell’enigma che lega passato e futuro, e combattendo Ohm, il mago corrotto che vuole alterare gli equilibri del mondo.
Nominato per il premio Hugo per il miglior romanzo in 1980.

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Patricia A. McKillip

L’arpista del vento

CAPITOLO PRIMO

Il Portatore di Stelle e Raederle di An sedevano sulla sommità della più alta fra le sette torri di Anuin. Sotto di loro era tutto un susseguirsi di tetti e terrazze di pietra bianca, che digradavano fino alla verde ondulazione del pendio su cui sorgeva la grande dimora. Più in basso la città sembrava doversi aggrappare ai colli per non scivolare in mare. Il cielo che splendeva su di loro era d’un azzurro intenso, la cui monotona serenità era turbata appena ogni tanto dallo spiraleggiare di un falco. Da molte ore Morgon non si muoveva. Quel mattino il sole aveva proiettato l’ombra del suo profilo contro uno dei merli fra cui era venuto a sedersi, e senza che lui ne avesse notato il lento ruotare l’ombra si stagliava adesso su quello opposto. Era consapevole della presenza di Raederle come di un elemento del panorama che gli si dispiegava intorno, com’era conscio della lieve brezza o dei corvi, che svolazzavano in ondeggianti file di puntini neri sul verde dei frutteti lontani: qualcosa di tranquillo e di remoto, la cui bellezza s’insinuava di tanto in tanto fra i suoi pensieri.

Nella mente gli s’intrecciavano interminabili ridde di congetture che l’una dopo l’altra finivano per sbattere sul muro della sua ignoranza. Stelle, bambini dalla faccia di pietra, i vividi frammenti di una coppa che aveva mandato in pezzi nella baracca di Astrin, città morte, una cambiaforma dai capelli neri, un arpista, tutte ipotesi che nel suo lavorio mentale si risolvevano in enigmi senza risposta. Ripensò alla sua vita, alla storia del reame, cercando di vedere i fatti come frammenti di un mosaico per metterli insieme. Niente combaciava; nessun elemento corrispondeva; la sua capacità di concentrarsi slittava via dai ricordi per disperdersi nella calura dell’aria estiva.

Si raddrizzò infine, rigido come una pietra che avesse deciso di muoversi, e si passò le dita sugli occhi. Immagini palpitanti simili ad antichi animali senza nome gli fluttuarono dietro le palpebre. Si schiarì di nuovo la mente, lasciò che quelle forme vagassero insieme ai suoi pensieri finché pian piano tornarono a svanire fra le nebbie dell’irrealtà.

Nei suoi occhi si spalancò l’immensa visione del cielo azzurro, e il fitto intreccio di stradicciole e di case più in basso. Incapace di pensare ancora si appoggiò contro la sua ombra. Il silenzio contenuto in quelle vecchie pietre penetrò dentro di lui; i suoi pensieri confusi e tormentati tornarono alla quiete.

Nel suo campo visivo entrarono una scarpetta di pelle e l’orlo ondeggiante di una gonna verde foglia. Girò la testa e si accorse che Raederle s’era seduta a gambe incrociate sul bordo di pietra accanto a lui.

Allungò un braccio, malgrado la posizione precaria, e la attrasse contro di sé. Poggiò il volto sui lunghi capelli di lei scossi dalla brezza, chiuse gli occhi e attraverso il sottile sipario delle palpebre continuò a vederne l’intreccio di luci e ombre. Non disse parola, ma la strinse con forza, quasi che presentisse l’arrivo di un vento deciso a strapparli via dal posto elevato e pericoloso in cui riposavano assieme.

Lei ebbe un fremito, sollevò il volto a baciarlo, e le braccia di lui riluttanti allentarono la presa. — Avevo dimenticato la tua presenza — disse, quando la bocca di lei si scostò.

— Sì. Ho cominciato ad accorgermene anch’io, dopo un’ora che stavi qui seduto. A cosa stavi pensando?

— A tutto. — Staccò un pezzo di calcina da una fessura e lo gettò fra le chiome degli alberi dietro il palazzo. Alcuni corvi balzarono in volo dai rami, strepitando. — Ho setacciato il mio passato fino a logorarmi il cervello, e arrivo sempre alla stessa conclusione. Io non so cosa sto facendo. In nome di Hel, non lo so!

Lei represse un brivido; sollevò le ginocchia e si appoggiò di lato al montante di pietra per osservarlo in viso. La gola le si strinse all’improvviso, quasi troppo piena di parole, e i suoi occhi luminosi come verde ambra marina si offuscarono un poco. — Rispondere agli enigmi. Tu mi hai detto che questa è la sola cosa che puoi fare; cieco, sordo, muto, e senza sapere dove stai andando.

— Lo so. — Estrasse un altro pezzo di calcina dalla fenditura e lo scagliò, con tale foga che per poco non perse l’equilibrio. — Lo so. Ma già da sette giorni sono qui ad Anuin con te, e non riesco a trovare una ragione o un enigma che possano indurmi a lasciare questa casa. Salvo il fatto che se resteremo qui troppo a lungo, moriremo entrambi.

— Questa è una ragione — osservò pacatamente lei.

— Io non so perché la mia vita dev’essere in pericolo a causa delle tre stelle che porto sulla fronte. No so dove sia il Supremo. Non so chi siano i cambiaforma, né come io possa aiutare un gruppo di bambini che si sono trasformati in pietra nelle viscere di una montagna. Conosco un solo posto da cui potrei cominciare a cercare delle risposte. E non è una prospettiva che lascia molte speranze.

— Dove?

— Nella mente di Ghisteslwchlohm.

Lei lo fissò, deglutì un groppo di saliva e appoggiò una guancia sulla pietra calda di sole. — Ebbene — mormorò con voce incerta, — io non credo che possiamo star qui in eterno. Ma, Morgon…

— Tu potresti restare qui.

Lei rialzò il capo. Il riflesso del sole nei suoi occhi gli impedì di leggerne l’espressione. Ma la sua voce suonò secca: — Io non ti lascerò. Per amor tuo ho rifiutato tutte le ricchezze di Hel. Tu devi imparare a vivere con me.

— È già abbastanza difficile cercare di restare in vita — mormorò lui distrattamente, poi arrossì. Ma la bocca di lei aveva avuto un tremito. Poi la strinse a sé, le prese una mano. — Per una setola di maiale d’argento, sarei disposto a portarti a Hed e a passare il resto della vita allevando cavalli da tiro sui pascoli orientali dell’isola.

— Io ti troverò una setola di maiale d’argento!

— Come si fa a sposarsi, in questa città?

— Tu non puoi sposarmi — disse con calma lei. La mano con cui lui la cingeva si allentò.

— Cosa?

— Solo il Re ha la facoltà di unire in matrimonio i suoi eredi. E mio padre non è qui. Perciò non potremo pensare a questo, almeno finché non troverò il tempo di tornare a casa.

— Ma, Raederle…

Lei raccolse un grosso frammento di calcina e lo gettò, colpendo in pieno un corvo di passaggio e strappandogli un gracidio. — Ma che cosa? — chiese, vagamente.

— Io non posso… non posso entrare da padrone sulla terra di tuo padre, sfidarne i morti come ho fatto, andar vicino a commettere un omicidio nel suo salone delle udienze, e poi prendere con me sua figlia e portarmela in giro per il reame senza neanche sposarla. In nome di Hel, cosa penserebbe di me tuo padre?

— Suppongo che te lo dirà lui stesso quando finalmente vi incontrerete. Ciò che penso io, ed è questo che conta, è che mio padre si è già immischiato fin troppo nella mia vita. Lui può aver previsto il nostro incontro, e forse anche perfino il nostro amore, ma non ha il diritto di far sempre tutto a suo modo. Se io non ti sposo è solo perché lui potrebbe aver previsto anche questo, in qualcuno dei suoi sogni.

— Pensi che ci fosse questo, dietro lo strano voto che fece circa la corona di Peven? Voglio dire, la precognizione? — s’incuriosì lui.

— Adesso stai cambiando argomento.

Lui la fissò un istante, riconsiderò l’argomento ed il rossore che le si era sparso sul volto. — Bene — disse sottovoce, lasciando il loro futuro nelle mani del vento che roteava intorno alla vertiginosa parete della torre. — Se rifiuti di sposarmi, non vedo cosa io potrei farci. E se hai deciso di venire con me, sempre che tu voglia realmente questo, non ti voglio fermare. Ti desidero troppo. Ma sono spaventato. Mi pare che avremmo migliori prospettive di cavarcela se ci tuffassimo da questa torre a testa in giù. In questo modo, se non altro, potremmo almeno vedere dove stiamo andando ad ammazzarci.

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