La visione era luce. Fiammeggiò nella sua mente da cento direzioni; dove era ingoiata dalle vuote tenebre inanimate, lì irraggiava di nuovo, ancora, combattendo la lunga notte finché il buio non si arricciò via per rivelare caos e altra luce. Il sole giallo contro un violento cielo azzurro… che fissava in basso un paesaggio cangiante in cui confuse sagome ossessivamente familiari si trasformavano in luce. La sabbia, smorta, arida, divenne all’improvviso una distesa ardente di vetro fuso. Sotto l’occhio giallo anche l’ovale si fuse.
Divenne un viso di bambina stravolto in un muto urlo di terrore. E poi l’urlo non fu più muto.
Terra si era alzata; batteva i pugni contro la parete della bolla, urlando lo stesso urlo della bambina. Il Mago, barcollando, allungò le mani alla cieca. Colpì lo spigolo della Macchina dei Sogni, e poi due persone che lottavano.
— No. Non c’è nessun pericolo. Non può farsi male.
— Lasciatemi! — Era la sua cubista, ricordò, la Regina di Cuori. Il dottor Fiori le rispose rapidamente, cercando di calmarla. — Va bene, va bene, ora vi lascio andare.
Le due persone si separarono; il Mago si staccò da loro, riacquistò l’equilibrio e la capacità di vedere. Per un secondo il dottor Fiori abbandonò l’inesorabile inseguimento di Terra e si girò verso di lui.
— State bene? — chiese sorpreso. — Sembrate un cadavere. — Prima che il Mago potesse rispondere, aggiunse: — Ce la fate a resistere? Comincia a ricordare. Comincia ad affrontare la realtà. Avete visto com’è cambiato il simbolo.
— Simbolo. — Michelle, con il viso bizzarramente sporco di lacrime e di colori, lo fissava, cercando di capire il senso delle sue parole.
— Sta mascherando le proprie azioni dietro uno schermo di simboli che sono per lei più accettabili. Voi l’aiutate ad affrontare la verità.
Lei lo fissò ancora per un attimo, poi guardò le ombre, il computer, la detenuta rapata e piangente, gli assistenti e le guardie, il segmento del vasto anello ricurvo che li circondava. Altre lacrime le rigarono il viso. — A che scopo? — gli chiese. — Vi prego, ditemelo. A che scopo?
Durante il tragitto di ritorno dall’infermeria, il Mago non vide niente, non disse niente, finché, dopo esser stati scortati dalle guardie nei quartieri degli ospiti, si arrestò davanti a una porta che non si apriva da sola.
— La maniglia — disse piano Michelle Viridian, e la girò.
— Oh.
Dentro c’erano i bagagli; ma non gli altri componenti del complesso. Il Mago immaginò che fossero da qualche parte a sistemare il palco. Credeva di non essersi mosso; si sentiva dentro qualcosa che lo bloccava. Invece aveva attraversato la stanza; aveva aperto una valigia; stava svitando il tappo di una bottiglia. Ci fu un altro istante vuoto, tranquillo, silenzioso. Poi sentì in gola il gusto dello scotch. Posò la bottiglia e d’un tratto rabbrividì violentemente.
Si girò. La Regina di Cuori era seduta su un divano, e continuava a piangere, muta, assente. La vernice del viso le macchiava le mani. Nel pallore della sua pelle, nei suoi occhi grigi, ossessionati, che guardavano senza vedere, il Mago scorse un soprannaturale riflesso del viso di Terra.
Bevve ancora. Poi trovò nel bagno un bicchiere, lo riempì di scotch e lo spinse fra le mani di Michelle.
— Bevi. — Aspettò. Michelle fissò il bicchiere sulle sue ginocchia, poi lo alzò e inghiottì un sorso. Si scostò con le dita i capelli dagli occhi, striandoli d’oro. Una forcina a cuore si staccò; lei fissò il cuore sul palmo della mano, il duro, lucido acrilico nero, di nessun valore. Nella mente del Mago si insinuò un ricordo che non gli apparteneva: forcine a cuore disseminate fra capelli così chiari che sembravano brillare qua e là di fuoco bianco.
Disse: — Queste forcine a forma di cuore. Appartenevano a Terra.
Lei annuì. Poi, senza sollevare la testa dalla forcina, lo guardò con la coda dell’occhio, come un bambino messo sul chi vive da una forma intravista nell’ombra. — Sì — mormorò.
Rimase in silenzio per un istante; sollevò il viso con cautela, verso le tenebre. — L’hanno rapata a zero. Magico Capo, come hai fatto a scorgere le forcine nei suoi capelli?
Lui alzò di nuovo la bottiglia. Sudava ancora; sentiva il gelo sul viso, lungo la schiena. — Perché non mi hai mai parlato di Terra?
— Non… non potevo.
— Cosa temevi che facessi? Non l’hai mai detto a nessuno?
— No.
— Oddio, Signora dei Cuori. — Si sedette in equilibrio sul bracciolo del divano accanto a lei, con la bottiglia sulle ginocchia. — Michelle. — Le toccò la spalla, e fu sopraffatto dalla duplice solitudine: una donna imprigionata in una visione, l’altra dietro una maschera. Con la mente ancora piena degli occhi di Terra, del potere di Terra, la sollecitò: — Parlami di lei.
— C’è ben poco da dire. Quasi niente.
— Dimmi dove è cominciato.
— Non lo so! — Ancora una volta i suoi occhi si riempirono di lacrime. — Non lo so.
— Dimmi quello che sai, allora. Non sei nata sulla Luna. Non sulla nostra. Dimmi.
Lei trasse un lungo sospiro; la sua voce era scossa. — Dove siamo nate, c’era l’orizzonte ristretto di una luna. Spazio. Notte. La faccia del pianeta. Il pianeta rosso. C’era un suono costante, sempre lo stesso. Il battito del cuore. I generatori. Non si fermavano mai. Come lo scorrere del sangue. Il primo suono che abbiamo udito. Per me divenne il rullio dei cubi. Per lei, restò sempre il battito del cuore. — La voce si affievolì. Il Mago la sfiorò, supplicando.
— Dimmi quello che ricordi. Qualsiasi cosa. Tutto. Parlami delle forcine a forma di cuore.
— Le forcine… Todd le regalò a Terra… Magico Capo, siamo nate a un minuto di distanza. Per anni, quando guardavo negli occhi di Terra, vedevo me stessa. Un’estensione di me stessa. Per anni non ci sono state separazioni, fra noi, né di mente né di corpo. Conoscevamo tutti, nella colonia. Tutti gli altri 18 bambini, tutti gli adulti. Erano la nostra famiglia, il nostro mondo. L’intero universo era in quei corridoi curvi piastrellati di bianco e nelle minuscole stanzette, nel pulsare dei generatori, nei visi familiari, nell’immensa faccia del pianeta sovrastante, che fu la prima cosa che sognai… Vivevamo spensieratamente, senza capire o credere davvero che eravamo due persone, non una. Per anni. Fino alla separazione. La prima.
— Quale?
— Perdemmo la testa tutt’e due insieme, quella volta. Lei si innamorò di Todd MacNeal. Io mi innamorai della musica. — Sorseggiò ancora lo scotch, in silenzio, sfiorandosi il viso, segnato da una ruga di stanchezza fra le sopracciglia. — Fu la prima volta. Che i pensieri di una non rispecchiavano quelli dell’altra. Fu la prima volta che ascoltai i nastri di musica di mia madre, e da allora udii il suono dei generatori, il suono del mio mondo, in ogni canzone che ascoltavo. Volevo produrre quel suono. Sognavo la musica, suonavo i cubi nel sonno. Picchiavo su qualsiasi cosa potesse emettere suoni. Udivo i cubi in qualsiasi cosa facessi risuonare. Era… era…
— Una visione — disse piano il Mago, e lei annuì.
— Una specie di follia… Sembra che quell’età sia fatta apposta per le follie. Terra si limitò a innamorarsi. — Esitò. Il Mago beveva lo scotch direttamente dalla bottiglia, e attendeva.
— Terra.
— Lei… è sempre stata sensitiva, intuitiva. Non me n’ero mai accorta finché non cominciammo a vivere come due persone diverse. Prima non badavo mai a chi di noi facesse una data cosa. Ma ora era lei che scriveva poesie. Era lei che percorreva un corridoio come se danzasse lungo la Via Lattea. I suoi capelli sembravano sempre scompigliati dal vento, sempre infuocati dalla luce del sole, anche dentro uno stabilimento lunare. Lei vedeva tutti noi dall’altro capo dell’universo, dall’altro capo del tempo. Non scorgevo più il mio viso nel suo. Non vi scorgevo il desiderio, l’impazienza, l’amore disperato. I suoi occhi non erano più per me. Erano per Todd.
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