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Clifford Simak: L'aia grande

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Anche pupplicato come “Il grande cortile” ed “Il lungo cortile”.

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Tornò a sedere sul bariletto, fumando e guardando gli squisiti colori della trasmissione televisiva.

— Sai, Hiram — disse — ci ho pensato spesso, ma non mi sono mai risolto a farne nulla. Giù in fabbrica ho un vecchio calcolatore di cui vorremmo liberarci perché ci occupa una stanza di cui abbiamo davvero bisogno. È uno dei nostri primi modelli, un affare sperimentale che è stato un vero bidone. Davvero un coso balordo: nessuno è mai riuscito a tirarne fuori qualcosa. Abbiamo fatto qualche tentativo che probabilmente era sbagliato… o forse giusto, ma non ne sapevamo abbastanza perché si arrivasse a un risultato. È stato lì in un angolo tutti questi anni e avrei dovuto liberarmene già da molto tempo, mi secca un po’ farlo, però. Mi chiedo se non ti piacerebbe… giusto per provare.

— Be’, non lo so — rispose Taine.

Henry prese un’aria espansiva. — Nessun obbligo, intendiamoci. Potresti anche non cavare un ragno dal buco… e francamente se ci riuscissi ne sarei sorpreso, ma tentare non nuoce. Magari potresti anche decidere di smontarlo per recuperarne le parti. C’è dentro materiale per parecchie migliaia di dollari. Probabilmente potresti utilizzarne la maggior parte in un modo o in un altro.

— Potrebbe essere interessante — concesse Taine, seppure non troppo entusiasta.

— Benissimo — disse Henry, con tutto l’entusiasmo che mancava a Taine. — Te lo faccio portar qui dai ragazzi domani. È bello pesante: ce ne vorranno di braccia per scaricarlo, portarlo in cantina e rimontarlo.

Henry si alzò in piedi cautamente e spazzolò via la cenere del sigaro dai pantaloni.

— Contemporaneamente dirò ai ragazzi di prender su il televisore — continuò. — Devo dire a Abbie che non l’hai ancora aggiustato. Se mai glielo lasciassi entrare in casa, così com’è adesso, non lo molla più.

Henry salì pesantemente le scale, e Taine lo guardò uscire dalla porta nella notte estiva.

Taine rimase in piedi nell’ombra, a guardare la sagoma scura di Henry attraversare l’aia della vedova Taylor diretta verso la strada dietro la sua casa. Aspirò una profonda boccata della fresca aria notturna e scosse il capo per scacciare il ronzio che aveva nella testa, ma il ronzio rimase.

Troppe cose erano successe, si disse. Troppe cose per un solo giorno… prima il soffitto e adesso il televisore. Una volta che avesse fatto una buona dormita sarebbe stato abbastanza in forma per tentare di venirne a capo.

Towser arrivò dall’angolo della casa e salì lento e zoppicante i gradini fermandosi davanti al suo padrone. Era pieno di fango fino alle orecchie.

— Hai avuto la tua giornata, vedo — disse Taine. — Però, come ti avevo detto, la marmotta non l’hai presa.

Uoff - rispose tristemente Towser.

— Sei proprio come un bel po’ di noialtri — lo ammonì severo Taine. — Come me, Henry Horton e tutti noialtri. Vai a caccia di qualcosa e credi di sapere che cosa stai cacciando, ma in verità non lo sai. E quel che è peggio non hai la più pallida idea del perché ne vai a caccia.

Towser percorse stancamente con la coda l’impiantito. Taine aprì la porta e ristette su un lato, per lasciar passare Towser, poi entrò anch’egli.

Nel frigorifero trovò un avanzo di arrosto, un paio di fette di carne, un pezzo di formaggio secco, una mezza scodella di spaghetti: si fece una tazza di caffè e spartì il cibo con Towser.

Quindi Taine scese nuovamente nello scantinato e staccò il televisore. Trovata una lampada d’emergenza la inserì nella presa e illuminò l’interno dell’apparecchio. Naturalmente era diverso, ma era alquanto difficile capire in che modo fosse diverso. Qualcuno aveva pasticciato con le valvole e le aveva deformate e poi c’erano cubetti di metallo bianco ficcati qua e là in una disposizione che sembrava casuale e illogica… sebbene non vi fosse probabilmente nulla di casuale, ammise Taine. E il circuito, a quanto vide, era stato rifatto ed era stata aggiunta una gran quantità di collegamenti.

Ma la cosa più sconcertante in proposito era che tutta quella roba sembrava sistemata in qualche modo… come se qualcuno avesse fatto un lavoro affrettato e raffazzonato per rimettere di nuovo l’apparecchio in condizioni di funzionare temporaneamente, in una situazione di emergenza.

Qualcuno, pensò.

E chi era stato quel qualcuno?

Si chinò in avanti per sbirciare negli angoli oscuri dello scantinato mentre sentiva corrergli lungo il corpo innumerevoli quanto immaginari insetti.

Qualcuno aveva staccato la parte posteriore dell’apparecchio e l’aveva appoggiata contro la panca, lasciandone le viti in bella fila sul pavimento. Poi avevano sistemato l’apparecchio, ma di gran lunga meglio di quanto fosse mai stato sistemato prima.

Se questo era un lavoro raffazzonato, pensò Taine, che diavolo di lavoro sarebbe stato se avessero avuto il tempo di rifinirlo?

Non ne avevano avuto il tempo, naturalmente. Forse si erano spaventati quando lui era tornato a casa… spaventati prima di poter pensare di rimettere a posto il retro dell’apparecchio.

Si alzò in piedi e si allontanò rigidamente.

Dapprima il soffitto, quella mattina… e adesso, di sera, il televisore di Abbie.

E il soffitto, adesso che ci pensava, non era affatto un soffitto. Un altro rivestimento, se questa era la definizione adatta, dello stesso materiale del soffitto era stato steso sotto il pavimento, formando una specie di area inscatolata fra le travi. Era incappato in quel rivestimento quando aveva cercato di forare il pavimento col trapano.

E che ne diresti, si chiese, se anche tutta la casa fosse così?

A tutto questo c’era solo una risposta: Nella casa c’era qualcosa con lui!

Quel qualcosa Towser l’aveva udito, odorato, o sentito in qualche altro modo, e aveva raspato frenetico il pavimento tentando di scoprirlo, come se fosse stata una marmotta.

Tranne che questa, qualunque cosa potesse essere, non era certo una marmotta.

Ripose la lampada di emergenza e salì le scale.

Towser era acciambellato sul tappeto del soggiorno, accanto alla poltrona, e dimenò la coda salutando il padrone con dignitosa cortesia.

Taine ristette a fissare il cane. Towser si voltò a guardarlo con occhi soddisfatti e sonnolenti, poi emise un sospiro e si sistemò a dormire.

Qualunque cosa Towser avesse udito, fiutato o sentito la mattina, era chiarissimo che ora non ne era più consapevole.

Poi Taine ricordò un’altra cosa.

Aveva riempito la teiera d’acqua per il caffè e l’aveva messa sul fornello. Aveva girato la manopola e la piastra si era accesa al primo tentativo.

Non aveva dovuto dare un calcio al fornello per farlo funzionare.

Quando si svegliò la mattina, qualcuno gli stava tenendo fermi i piedi e schizzò a sedere per vedere che c’era.

Ma non c’era nulla di cui allarmarsi: era soltanto Towser che era strisciato a letto con lui e ora stava sdraiato sui suoi piedi.

Towser si lamentava sottovoce con le zampe posteriori che scalciavano, come se sognasse di cacciare conigli.

Taine liberò i piedi da sotto il cane e si mise a sedere, raggiungendo i vestiti. Era presto, ma si era ricordato all’improvviso di aver lasciato fuori nel camioncino tutti i mobili che aveva raccolto il giorno prima e di doverli portare nello scantinato per poter incominciare ad aggiustarli.

Towser continuava a dormire.

Taine si trascinò in cucina e guardò fuori dalla finestra: fuori sulla veranda stava accucciato Beasly, l’uomo di fatica degli Horton.

Taine andò alla porta a vedere che succedeva.

— Li pianto, Hiram — gli disse Beasly. — C’è lei che continua a beccarmi ogni minuto del santo giorno, e non riesco a fare niente che la soddisfi, così prendo e me ne vado.

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