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Edgar Pangborn: La compagnia della gloria

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Edgar Pangborn La compagnia della gloria

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La compagnia della gloria

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«Poiché veneravo ogni sua parola, ero felice di buttarmi… beh, noi le chiamavamo prove, e spesso avevamo la collaborazione un po’ riluttante di George e di Laura. Qualche volta vi partecipava anche Andromache, quando Demetrios la supplicava, ma inevitabilmente dava l’impressione di farlo solo per compiacere il figlio, e lasciava trasparire un mesto divertimento. Come molte madri amava il figlio, ma aveva per lui poco o punto rispetto.

«Demetrios ci dirigeva, sul suo Shakespeare in volume unico, il solo libro che avessimo con noi in quel viaggio. Gridava con noi per la nostra interpretazione di quello che noi capivamo appena, e insisteva energicamente sulla realtà dell’illusione drammatica. Per lui (e per me) Macbeth, Lear, Rosalinda, Falstaff, tutti erano reali quanto Judd o George o Laura o me stesso; anzi ancora di più, perché erano immortali. Ancora oggi mi piace pensare, care anime, che le perplessità di Amleto verranno ancora discusse molto tempo dopo che io sarò morto.

«E così, come una compagnia di commedianti senza pubblico, noi avanzammo a tentoni dal Missouri alla Pennsylvania (impiegammo due mesi, fino a settembre inoltrato, ma è vero che non avevamo motivo di affrettarci) prima che accadesse una cosa che fece scoppiare la bolla del sogno di Demetrios. Forse un po’ dell’intensità ch’egli metteva in quelle prove era adatta a una prima fase della gioventù: le persone serie, come Howard Wilmot, dicevano che avrebbe dovuto crescere prima. Ma se anche sembrava una fantasia infantile, era attuata con la passione prodiga di un adolescente che sotto molti aspetti era un uomo, e un artista dal più profondo del cuore.

«In un certo senso io davo la colpa a Howard Wilmot, eppure secondo il suo punto di vista era animato da buone intenzioni. Judd, anche se credo che lui non l’avrebbe mai fatto, personalmente, non fece nulla per impedirlo: stette in disparte e lasciò che succedesse, senza capire se non quando era troppo tardi.

«Eravamo in una cittadina nei pressi di Harrisburg, completamente abbandonata, dove un dolce, insistente vento di sudovest spingeva la pioggia lungo la desolazione della sua Main Street, come uno sciame di spettri d’argento. La cittadina era tutta nostra, potevamo farne ciò che volevamo; quel settembre era ancora possibile trovare scatolame nei negozi d’alimentari o nelle case abbandonate, magari in compagnia dei morti che si decomponevano. Ma in quella cittadina che si trovava in una valle e che, ne ricordo ancora il nome, si chiamava Aberedo, era stato lasciato tutto in ordine. Forse i sopravvissuti alle epidemie e alla guerra l’avevano abbandonata per paura dell’inondazione, perché un fiume l’attraversava, e rugghiava alto fino agli argini, e avevano deciso di lasciare in bell’ordine il loro pezzetto di mondo. Come avevamo fatto in molte altre città, per ripararci dalla pioggia ci rifugiammo in un edificio pubblico. Era un cinema, e fu Howard a proporlo.

«Già una volta ne avevamo usato uno, molto tempo prima, quando Demetrios e io l’avevamo esplorato da cima a fondo e ci eravamo serviti del palcoscenico per una prova dell’Otello; ma questa volta Howard si incaricò di fare da guida a Demetrios. Ci condusse nella cabina di proiezione, e venne anche Andromache, e Howard ci spiegò tutto con la saggezza pedante di un meccanico d’auto. “Questa qui è una bobina, Demmy,” disse. “Questo qui è un proiettore… guarda che roba, ha più pezzi di un’automobile.” Howard era stufo delle prove; gli davano fastidio; erano una perdita di tempo (anche se non so cosa sperasse di fare del tempo risparmiato) e penso che secondo lui il linguaggio di Shakespeare non fosse sempre corretto. “Questa cassetta qui che contiene la lampada del proiettore, vedi, è di un metallo speciale, per resistere al calore. Mi hanno detto che il calore di queste lampade sia una precauzione, e che erano molto speciali, non credo che sia rimasto qualcuno capace di fabbricarle, anche se avesse i mezzi. Vedi, non è mica come l’orticoltura, voglio dire, un uomo può prendere un pezzo di terra e coltivarci gli ortaggi, ma vedi, con questo cinema non ci si può ricavare da vivere.” Egli cercava di essere buono, o era convinto di esserlo a dire così, e io non avevo il coraggio di dirgli di smetterla. “Vedi, Demmy, prendi per esempio quella pizza di pellicola, sai di cosa è fatto quel film? Plastica. Sai di cos’è fatta la plastica? È un prodotto del petrolio. Tutte le plastiche sono prodotti del petrolio,” disse Howard, che aveva letto un articolo sull’argomento. “La verità è, Demmy, che il cinema è finito. Naturalmente, finché ti accontenti di giocarci…”

«“Bene,” disse docile il mio amico, “smetterò di giocare.” E scese giù in sala, camminando in modo naturale, e con lui c’ero solo io e io sentivo la sua sofferenza al punto che parlare mi era impossibile. Poi corse alla porta, uscì nella pioggia correva, e io lo inseguivo, ma non riuscii a raggiungerlo, non riuscii a farlo fermare neanche urlando. Arrivò al ponte sopra la corrente fangosa del fiume, scavalcò il parapetto e sparì. Non sapeva nuotare. Io invece sì, mi sfilai le scarpe e mi tuffai dietro di lui… era un’impresa disperata, naturalmente, la corrente lo aveva trascinato via, e sotto. Certo, anch’io dovevo avere voglia di morire, altrimenti non sarei stato così pazzo da tentare una cosa simile, ma poi credo che la parte naturale, animale, di me non volesse morire. Ricordo che mi afferrai a qualcosa, credo un’asse di legno, e non so come arrivai a riva circa mezzo chilometro più a valle, e lì George e Judd mi trovarono. Non ero svenuto, solo esausto. Capii tutto quando Andromache mi corse incontro per abbracciarmi e mi baciò e gridò: “Oh, Demetrios… Dio sia ringraziato, Demetrios! Allora il povero Adam è morto? Demetrios, mi dispiace tanto! Lo so che gli volevi bene, Demetrios, lo so.”

«Mi pare che Judd Wilmot dicesse: “Andromache, Dio non s’imbroglia.” Ma quella fu la sola volta che la rimproverò, perché si accorse che noi tutti non avevamo detto niente, e del resto non credo che lei l’avesse sentito.

«Lei non rinunciò mai a quell’illusione, e fin dal principio noi c’eravamo abituati a cercare di semplificare sempre le cose per Andromache. Per me era una specie di pazzia, se volete, prendere il nome di qualcuno che mi era stato tanto caro, e in un certo senso diventare lui, ma… ci si abitua anche alla pazzia. Non sembrava portare via niente a quell’antica parte della mia vita che era Hesterville; imma§inavo addirittura che mia madre approvasse quello che facevo. Continuammo il viaggio, arrivammo qui a Nuber dove si cominciava a ristabilire un po’ d’ordine, e per un po’ restammo insieme, sei mesi, mi pare che fosse, prima che morisse Andromache. Poi Judd decise di portare gli altri nel Vermont… a lui Nuber non era mai piaciuta, diceva che era senza dio… ma io decisi di restare qui e da allora ci sono sempre rimasto, raccontandovi di tanto in tanto le mie storie, e guadagnandomi da vivere come rispettabile portinaio.

«Andromache aveva un’altra debolezza di mente… ne aveva più di una, ma vi parlerò di questa perché mi sembra che c’entri con la storia. Non aveva mai letto libri: per lei bastava la tivù. Ma certe leggende dei libri erano arrivate fino a lei, e avevano destato la sua bizzarra capacità di credere. Dopo che io ero diventato Demetrios, o che Demetrios era diventato me… non so come dovrei dire, esattamente… Andromache parlava spesso di Tom Sawyer, come se fosse qualcuno che aveva conosciuto bene; ma nella sua mente il personaggio di Mark Twain si era allontanato molto dall’originale, e aveva assunto le qualità di Lancillotto, e del Demetrios che era morto e di Gesù. Qui a Nuber se ne stava seduta per ore a fantasticare; non parlava a voce alta con Tom Sawyer, ma la sua espressione cambiava in mille modi, come se conversasse anche se non a voce. E spesso spariva, andava a vagabondare nei dintorni, ma non le capitava mai niente, e tornava sempre… e noi cominciammo a non preoccuparcene più. Cominciò a raccogliere le erbe, e tornava con ceste di questo e di quello, di solito dentedileone o piantaggine o altre cose innocue e buone da mangiare, ma un giorno portò alcuni funghi a forma d’ombrello, di un bianco puro. “Buon Dio!” fece la moglie di Judd, Miranda, “sono velenosi. Non dovresti toccarli, Andy, santo cielo!” “Oh!” disse Andromache. “Sono cattivi? Allora buttali via,” aggiunse, e ridacchiò. “Se sono cattivi non possiamo servirli quando viene Tom Sawyer domani; mi pare che abbia detto domani.” E due giorni dopo mi stava parlando in quel suo solito modo cauto, senza guardarmi bene in faccia ma chiamandomi continuamente Demetrios, quando cominciò a stare malissimo. Quando aveva parlato con Miranda, doveva avere già mangiato qualcuno dei funghi velenosi… crudi, immagino, nei campi.

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