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Edgar Pangborn: La compagnia della gloria

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Edgar Pangborn La compagnia della gloria

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La compagnia della gloria

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— Siano benedetti! — disse la donna alla finestra.

— Sì, nel 1993 le forme di vita non umane si stavano riprendendo, qua e là, dalle devastazioni causate dall’industria. Non c’era una musica mattutina come quella che godiamo adesso: però cantavano. In questi quarantasette anni, Madam, credo che qualche specie si sia estinta a causa di veleni, ma altre sono sopravvissute e si sono moltiplicale. Nella nostra vanità, immaginiamo ancora che cantino per noi. Spero che siano stati pettirossi.

«Quel giorno, più tardi, sentii squillare un campanello, dietro di me, mentre la pioggia per un po’ si attenuava, e arrivarono un ragazzo e una ragazza in bicicletta. Avevano i visi freschi e buoni, e dopo una prima occhiata non ebbero paura di me. La ragazza disse: “Siamo amici, uomo… non spaventarti.” Erano amici, e tali rimasero. Lei era Laura Wilmot, il ragazzo George Wilmot, suo cugino. Facevano da avanguardia a un gruppo di sette persone guidate da un solido vecchio, Judd Wilmot, zio di Laura e padre di George; e appena seppero che ero solo, senza farmi altre domande, mi dissero che ero uno di loro.

«La loro bontà mi fece crollare. “Oh, sì, piangi, sfogati,” disse Laura, e aprì il suo impermeabile e il mio per abbracciarmi. “Come ti chiami?” “Adam,” dissi io. “Bene, caro Padre Adamo,” disse Laura, per farmi ridere; e George, che non parlava mai molto, borbottava per farmi coraggio. Ero un ragazzino di tredici anni, e cominciavo appena a crescere. George aveva diciannove anni, mi pare, era grande e grosso e mite.

«Judd Wilmot, direi, era un comandante nato. Anch’egli era buono, a modo suo, e aveva spirito organizzativo, capacità di guidare e di dare ordini. Fanatico: quando si metteva in testa un’ idea era impossibile levargliela. Una di queste idee era la convinzione, nata chissà come, che le cose dovessero andare meglio all’est, ed egli intendeva dimostrarlo, a costo di trascinarci tutti fino all’Atlantico e di buttarci dentro. Sapeva essere severo, come deve esserlo un comandante, ed era privo del senso dell’umorismo, oppure glielo avevano fatto perdere gli orrori di quel tempo. Non mi risulta che fosse mai meschino, o stupido o ingiusto.

«C’era la moglie di Judd, Miranda, tenera e discreta, e il cupo fratello minore di Judd, Howard, che era il padre di Laura; poi una vedova che si chiamava Andromache Makarios e che era stata vicina dei Wilmot nella loro città, nel Kansas, e il figlio diciottenne di Andromache, Demetrios.

«Dopo pochi mesi, tra l’altro, le biciclette diventarono inservibili quanto le automobili. Le gomme e gli ingranaggi… non c’erano i ricambi. L’ultima goccia d’olio lubrificante… non ce n’era più. Ecco come si fermava un mondo, tra una quantità di avarie minuscole dopo quelle colossali, che ci lasciavano più impotenti della gente dei tempi antichi che non aveva mai sognato l’età industriale.

«Andromache era sola e appassionata, forse lo era sempre stata. Suo marito, uno dei pochi che ancora cercavano di vivere coltivando la terra anziché sfruttando le miniere esauste nel tentativo di guadagnare dollari, era morto il giorno della Guerra dei Venti Minuti… di un attacco di cuore. Come tutti quelli che erano sopravvissuti al disastro, me compreso, ella era ancora sotto shock. Ricordo che più di una volta restava indietro, e quando ci fermavamo ad aspettarla la vedevamo immobile, con la faccia alzata sotto la pioggia; e Judd, o Demetrios, tornavano indietro per scuoterla da quella specie di trance. Ella non aveva ceduto, e non avrebbe ceduto fino a quando si fosse potuta aggrappare a Demetrios; e Demetrios, a diciotto anni, lo capiva. Quando diventammo amici mi disse che era stato sul punto di andarsene da casa, perché sognava di rompere quelle catene di pizzo, come diceva lui: la fuga necessaria di un figlio. Suo padre era stato in grado di prendersi cura di Andromache, che era un po’ matta, e avrebbe voluto che lui se ne andasse, per il suo bene; ma adesso quell’uomo comprensivo era morto, ed era morto anche il mondo.

«Come posso darvi un’immagine di quel Demetrios che era mio amico, che allora mi sembrava meravigliosamente vecchio, e che adesso mi sembrerebbe un bambino? Judd e Howard osservavano spesso che ci somigliavamo moltissimo, come se fossimo fratelli, sebbene Laura dicesse che lei quella somiglianza non la vedeva. Eravamo tutti e due bruni, con il naso diritto e il labbro inferiore pieno; forse la nostra somiglianza finiva lì. Quando ricordo la sua faccia non vedo un’immagine di me stesso, ma un’altra persona che amavo come un essere molto diverso.

«Andromache e io, fin dal primo incontro, eravamo molto a disagio, sempre, uno nei confronti dell’altra. Quel che provava lei, non l’ho mai saputo; quello che sentivo io era una tensione che mi sembrava ostilità, ma che poteva essere qualcosa di diverso. Lei era bruna e minuta e doveva essere vicina alla quarantina, sebbene fosse snella come una ragazzina, e mi sembrasse poco più vecchia del meraviglioso Demetrios.

«Penso che Judd Wilmot non si accorgesse del complesso di sentimenti, non tutti giovanili, che turbinavano fra noi. Eravamo tutti presi dalle sue fantasie sugli stati orientali… quel caro uomo era nato nel Vermont, sebbene avesse solo cinque anni quando la sua famiglia si era trasferita all’ovest… perché non avevamo idee in contrario più forti delle sue e perché non avevamo una volontà come la sua. Per amore e per rispetto verso di lui, in sua presenza ci comportavamo bene. Era all’antica, puritano, quasi un sopravvissuto del diciannovesimo secolo del Tempo Antico, o piuttosto di quello che io immaginavo fosse il diciannovesimo secolo.

«Demetrios, prima del disastro, aveva avuto intenzione di diventare regista cinematografico: uno che preparava e dirigeva la creazione di quelle immagini in movimento… ne avrete sentito parlare, e non perderò tempo a spiegare come funzionava la fotografia, anche se una volta lo capivo. Era, quello, uno degli svaghi principali della gente del ventesimo secolo. Nella mia infanzia, il cinema aveva creato la possibilità di una grande forma d’arte, l’unica generata dall’era industriale, anzi l’unica innovazione artistica dopo la nascita della pittura a olio alla fine del Medioevo, e la creazione dei sistemi dell’armonia e del contrappunto, più o meno nella stessa epoca. Demetrios aveva capito quelle possibilità. Era giovane, era cresciuto in una fattoria del Kansas (ma suo padre era un uomo colto), e aveva visto i film quasi esclusivamente alla tivù. Ma intuiva l’immenso campo d’arte drammatica che doveva esistere dietro la povertà di ciò che vedeva in quel corrotto tubo catodico, e aveva deciso di entrare in quel mondo di creazione e di riversarvi nuove meraviglie. Sarebbe stato capace di farlo, credo.

«Quando lo conobbi e ne feci il mio eroe, egli non accettava per definitivo lo sfacelo della nostra società. Era razionale in tutto il resto, ma si aggrappava alla convinzione piuttosto irrazionale che, quando la nostra gente avesse restaurato la struttura della società, il complesso della produzione meccanica che sosteneva la realizzazione dei film si sarebbe riattivato naturalmente. Dimenticava, ed io non ero più saggio di lui, che il cinema era l’unica grande arte che, per esistere, dipendeva dalla tecnologia sofisticata della civiltà industriale. Può esserci della grande musica senza i pianoforti e senza complicati strumenti a fiato. Date a un pittore o a uno scultore il materiale di base, anche se rozzo, e le arti figurative possono vivere. Ma l’arte di Demetrios era stata falciata alla radice. Sebbene egli ne capisse l’aspetto creativo, conosceva pochissimo quello tecnico… non lo aveva ancora preso in esame, mi diceva; poiché ne sapevo meno di lui, lo prendevo in parola e non facevo domande. Adesso capisco che probabilmente egli sapeva la verità e che la sua era una cecità voluta.

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