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Edgar Pangborn: La compagnia della gloria

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Edgar Pangborn La compagnia della gloria

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La compagnia della gloria

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«Il mio nome è Demetrios da quarantasette anni… quanto basta per aver visto salire le acque e diventare il Mare di Hudson. Ho veduto un altro messia, diciassette anni fa, e il suo martirio per mano di coloro che egli voleva salvare. Parlo dell’uomo Abraham, che alcuni chiamano profeta, legato alla mota sulla Piazza della Forca di questa città.»

— Non era un profeta? — chiese il giovane con il canelupo. — Chiedo scusa… Non volevo interromperti.

— Tutti gli uomini sono profeti, — disse Demetrios, scrutandolo. La sua presenza era un po’ strana, ma non molto. I cittadini della Città Interna, che potevano andare ovunque volessero, si facevano vedere non di rado per le strade aperte, soprattutto in compagnia di cani e di servitori che li proteggevano, e benché di solito non si prendessero il disturbo di fermarsi ad ascoltare i narratori agli angoli delle strade, non v’era motivo di stupirsene. — E poiché gli uomini non sono mai d’accordo, forse nessuno dovrebbe portare quel nome. Io mi chiamo Demetrios, che significa «appartenente alla terra» o «sacro alla terra». Nei tempi più antichi c’era una dea, Demetra, che veniva venerata come spirito della terra, madre di tutto. Era adorata anche sotto altri nomi. Demetra era il nome con cui la chiamavano i greci… Tu ne hai sentito parlare, signore?

Il ragazzo apparve turbato, forse nel sentirsi chiamare «signore» da uno tanto più vecchio; ma quasi tutti coloro che vestivano di lino bianco l’avrebbero considerato un loro diritto naturale. — So chi erano, — disse il giovane, e sorrise, senza arroganza. — Conosco alcuni libri.

Demetrios annuì. — Allora ti sarai accorto che sono pieni di vita. Io sono Demetrios. Se qualcuno mi chiamasse per strada con quel nome, Adam Freeman, non capirei che si sta rivolgendo a me. Mio padre mi chiamava Ad; per mia madre, che era irlandese, ero invece Adam-bach.

«Avevo tredici anni nel 1993, vecchio calendario. Ora ricordo, care anime, che un continente intero si estende ad ovest, a nord e a sud di qui, tutto ciò che le acque dell’oceano non hanno sommerso; e che in quella regione la nostra intera nazione di Katskil è come una piccola unghiata di sporco su di una grande coperta. Quella è l’immensa regione di cui parlate, quando dite “Stati Uniti d’America”. Fino all’anno 1993, dopo il quale non esiste più storia scritta, a quanto sappiamo, se non quella della nostra piccola unghia, il resto del mondo era spartito in altre divisioni territoriali, grandi e piccole… beh, forse lo è ancora, ma nessuno parla più attraverso gli oceani. Tutte quelle divisioni si chiamavano nazioni, ed erano libere di farsi guerra l’una con l’altra con armi che potevano trasformare la terra in un mucchio di macerie… come è adesso, comunque. Tutte quelle divisioni si chiamavano nazioni e le alleanze di nazioni, care anime, non hanno il buon senso di evitare la stupida passione della guerra. Le nazioni non conoscono la giustizia e la carità più di quanto non conoscano l’amore, perché sono, in sostanza, masse, folle organizzate. I singoli individui possono amare ed essere amati; possono essere generosi e buoni, longanimi, anche coraggiosi; le nazioni non possono esserlo mai. Una folla non può mai né pensare né sentire. Pensare è un’attività solitaria, e sentire è l’esperienza del cuore isolato.»

Un uomo dalla faccia impenetrabile che stava in mezzo agli spettatori prese una decisione e si allontanò. La sua immagine rimase nella memoria di Demetrios e lo irritò; non sarebbe stato facile riconoscerlo, ad un secondo incontro, poiché aveva lineamenti neutri, blandi e freddi.

— Nel 1993, a tredici anni, leggevo il giornale dì Chicago, smilzo e censurato, per scoprire quello che si poteva capire tra le righe, con le cupe interpretazioni di mio padre. Noi, cioè io e i miei genitori, che mi trattavano da adulto, apprendevamo dalla radio e dalla televisione quello che ci chiedevano di pensare, in modo da poter fingere di pensarlo in presenza degli estranei. Noi sapevamo…

— Senti, — disse Potterfield, — tu non stai mica raccontando una storia, stai solo blaterando sui tempi andati… e a chi interessa?

— Ah, Potterfield! C’erano una volta due sposini che si chiamavano Adamo ed Eva, e avevano due bambini, uno che si chiamava Caino e…

— Oh, merda! Dimentica quello che ho detto.

— Noi sapevamo che sarebbe scoppiata la guerra, e nel 1993 scoppiò. Il 24 giugno 1993; secondo la vecchia religione che già allora andava lentamente disgregando, era il giorno di san Giovanni Battista, anche se non posso dire che qualcuno lo notasse. Adesso noi la chiamiamo Guerra dei Venti Minuti, anche se ricordo di aver visto il bagliore d’una bomba all’orizzonte, la seconda notte. È impossibile dire quale delle principali divisioni del mondo avesse deciso di suicidarsi. Noi…

— Ma no, — disse Potterfield. — Furono i russi.

— È quello che continuava a ripeterci automaticamente la tivù fino a che non venne a mancare la corrente. Io ricordo una trasmissione dell’America Meridionale, captata dalla radio della nostra auto, che accusava noi. La batteria della radio si scaricò presto e allora ci fu il grande silenzio. Secondo me furono gli Stati Uniti a scatenare l’ultima follia, ma che importanza ha, ormai? Altre nazioni erano quasi altrettanto marce, l’intera società era un Watergate…

— Diavolo! — Potterfield balzò in piedi e afferrò le stanghe della sua carriola. — Non voglio starmene più qui a sentire certe cattiverie. — Se ne andò sferragliando, e si soffermò all’angolo per tendere la mano contro Demetrios, facendo le corna con le dita per scongiurare il malocchio.

Rivolgendosi soprattutto al ragazzo dai capelli scuri; Demetrios osservò: — Ecco che se ne va, forse, l’ultimo patriota americano. — Una delle quattro lavandaie si alzò per andarsene, ma la sua compagna la trattenne, dubbiosa.

Garth lasciò avvicinare di un paio di passi il suo vecchio ronzino. — Il vecchio Potterfield non ha mai capito niente.

— Sì, — disse Demetrios. — È questo che lo rende diverso da voi e da me. — La donna alla finestra era impassibile. — Le bombe erano dirette alle grandi città e alle aree di lancio. Una cancellò Chicago, duecentocinquanta miglia da Hesterville. Erano bombe che, nel gergo folle di quel tempo, venivano chiamate «pulite». Questo voleva dire semplicemente che uccidevano più gente con l’esplosione e con il fuoco di quanta ne ammazzassero avvelenando l’atmosfera; quelli che le lanciavano lo giudicavano più conveniente, perché si illudevano di restare vivi, mentre difendevano la libertà o quel diavolo che pensavano di difendere. Immagino che in tutta la storia la gente abbia sempre immaginato che, se dai all’orrore un nome grazioso, non è più orrore.

«Adesso ho deciso. Vi dirò come ho acquisito il nome di Demetrios, e solo questa storia. Lasciate perdere le automobili, gli aerei, le bombe e tutto il resto. Questo l’avete già sentito: lasciatelo pure arrugginire. E abbiate pazienza con me. Per raccontare la storia del mio nome devo parlare ancora un poco della fine del Tempo Antico.

«Ci furono le brevi epidemie, malattie che infuriavano per pochi giorni e passavano come tempeste di fuoco, lasciando i loro morti. Erano diverse dalle morti per radiazioni.»

— La Peste Rossa? — chiese il ragazzo dai capelli scuri.

— No, quella venne sedici anni dopo, solo… fammi pensare: sì, trentun anni fa. No, le brevi epidemie… potevano venire dai laboratori bellici, probabilmente dai nostri che erano stati sventrati. Quei metodi di guerra, si credeva, erano stati abbandonati molto tempo prima, ma questo lieto annuncio era stato dato da un governo che mentiva virtualmente su tutte le altre sue attività. E più tardi, ma prima che io nascessi, più tardi si seppe che al Pentagono interessava soltanto realizzare gas e malattie che non rappresentassero un pericolo per chi se ne serviva… vedete, mezzi puliti per annientare gli altri, che avevano la spudoratezza di essere stranieri.

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