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Edgar Pangborn: La compagnia della gloria

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Edgar Pangborn La compagnia della gloria

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La compagnia della gloria

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Demetrios si accorse che il suo silenzio era durato troppo a lungo. Riaprì gli occhi e guardò raggiante il suo pubblico con esperta aria astuta, per far capire che non si era appisolato come un vecchio smemorato e rimbambito. Erano tutti attenti; alcuni ricambiarono il suo sorriso. Altri erano sopraggiunti mentre egli era distratto; si era accorto del loro appressarsi, ma aveva voluto seguire ancora un po’ i suoi pensieri. Nelle epoche in cui predomina l’analfabetismo, il narratore e il portatore di notizie divengono importanti; e la memoria di alcuni ascoltatori acquista poteri sorprendenti, che l’èra della macchina da scrivere e del quotidiano aveva perduto o sepolto. Demetrios studiò la piccola folla: alcune facce gli erano vagamente familiari, ma tutte non avevano nome, tranne la dolce faccia grassoccia di Garth.

Nel berretto di tela che aveva lasciato cadere capovolto ai suoi piedi c’erano alcune monete. Erano quasi tutti soldini d’ottone della Repubblica del Re di Katskil, coniati rozzamente con la faccia mascelluta di Brian II. (Come suo padre Brian I, affermava che la sua monarchia era un Governo Provvisorio, il cui sacro fine era la restaurazione degli Stati Uniti d’America… purtroppo irrealizzabile per ora.) Tra i soldini brillava un sorprendente frammento del passato, accettato come moneta legale ma di rarità estrema, un dieci centesimi di dollaro d’argento del Tempo Antico, che valeva almeno cinquanta dei soldini di Katskil. Chi mai, tra i presenti, poteva essere stato così munifico?

Quasi sicuramente era il giovane dai capelli scuri che sedeva in disparte dagli altri, e teneva al guinzaglio un canelupo grigio. La tunica e il perizoma di lino erano bianchi come la panna, segno non ufficiale di appartenenza all’aristocrazia; sebbene non esistessero disposizioni di legge al riguardo, nessuno indossava in pubblico il prezioso lino candeggiato. Gli individui comuni si accontentavano di indumenti raffazzonati dalle massaie inesperte o dai servi con rozzi tessuti di lana dai colori spenti, o con linolana… avanzi e brandelli di lana e di lino. Gli aristocratici si gloriavano della pulizia e del nitore, mentre a certi livelli il sudiciume era considerato sinonimo di virtù. La borsa di pelle di daino ed i mocassini del giovane dovevano essere stati confezionati dai servitori (virtualmente schiavi) che eseguivano lavori del genere per la Città Interna e per le grandi proprietà terriere dei sobborghi. Lo sguardo franco e innocente del ragazzo turbava Demetrios, che era ossessionato dal ricordo di un altro mondo, morto da quasi mezzo secolo. — Io credo che una storia voli sempre là dove c’è una scintilla di vita disposta ad ascoltarla. A Hesterville avevano quei congegni che sembrano fantasie fiabesche a quanti sono troppo giovani per averli visti. Nessuno, qui, eccettuato Potterfield, può ricordarli come me… telefoni, automobili, radio, macchine per smuovere la terra, aerei. Naturalmente, per voi sarà difficile crederci. Ti ricordi dei voli spaziali, Potterfield?

— Merda, — disse lo straccivendolo. — Era tutto un trucco, non è vero? Io non ho mai visto un razzo partire se non alla tivù, proprio come in tutti quegli sceneggiati di fantascienza, dove era tutto inventato.

— Cos’è successo alla tua tivù? — chiese il ragazzo dai capelli scuri.

— Fregata, — disse Potterfield. — Fregata, signore. Vedi, quando l’elettricità se ne andò, non funzionava più niente. — Strizzò l’occhio a Demetrios, per dimostrare che condivideva con lui un antico simulacro di saggezza divenuto inutile e inacidito. — Allora la mia ragazza gli tirò una bottiglia di lozione per le mani… vuota. Tanto, la tivù era sua. Abitavo insieme a lei, allora, all’incirca cinquant’anni fa. Adesso ho settant’anni com’è vero Gesù, visto che me lo chiedi.

— E ricordi anche le automobili? — disse Demetrios. — Ricordi i telefoni? Gli aerei a reazione?

— Ma certo. Anche adesso, se devo andare in qualche posto, penso sempre, oh, beh, telefonerò, e poi penso: oh, merda. — Potterfield si grattò sotto il perizoma bagnato, irritato da molti affanni, non ultima la vecchiaia. Pidocchi, ratti e pulci erano sopravvissuti in abbondanza alla catastrofe di tanto tempo prima. Negli ultimi due o tre decenni, dato che le acque, dopo essere cresciute, avevano mantenuto il loro livello con scarse fluttuazioni, prosperava in particolare una varietà di ratti a coda corta, piccoli e aggressivi, dal pelo scuro e feroci, con una simpatia per le nuove, meschine dimore umane che non venivano più costruite su fondamenta di cemento. Poteva essere una mutazione del prolifico topo dì campagna del Tempo Antico, pensava Demetrios, ma non c’era nessuno che potesse discuterne con lui e che conoscesse almeno la parola «genetica». — Adesso stiamo meglio, no? — disse Potterfield. Doveva aver avuto circa vent’anni, pensò Demetrios, quando il fuoco aveva divorato le città e le brevi epidemie si erano succedute, e le morti per radiazione e le malattie dalla virulenza travolgente, quando non c’erano più i mezzi per studiarle e per bloccarle. La grande Peste Rossa era venuta solo sedici anni dopo, quando Demetrios aveva ventinove anni e viveva a Nuber. Potterfield doveva essere un giovanotto semplice (se pure esistevano esseri umani dei quali si potesse dire una cosa simile), con un appetito per le semplici soddisfazioni (se pure esistono soddisfazioni che non si disperdano all’infinito, come le increspature di uno stagno). Ce n’erano stati tanti, come lui! Maschi e femmine di tutte le età, che superavano i quattro miliardi secondo le stime del 1990, nonostante il lieve decimo del tasso di natalità e le desolanti carestie della fine degli anni Settanta e dell’ inizio degli anni Ottanta. — Stiamo meglio adesso, senza tante cose che t’aggrediscono da tutte le parti. L’uomo ha la possibilità di pensare, — disse Potterfield. — Non lo credereste neanche, quanti pensieri profondi ho adesso. Continua con la tua storia, Dimmy… mi sono fermato qui perché tu mi svaghi, non è vero?

— Ti svagherai, se riuscirai a stare sveglio. Io ero cresciuto in quel mondo, — disse Demetrios, — fino ai tredici anni; non tranquillo, perché nessuno era tranquillo tranne gli spensierati che erano capaci di sentirsi a loro agio anche seduti su di un vulcano. Dato che ero un ragazzetto, certo, anch’io spesso ero spensierato. Io…

— Oh, Demetrios! — La donna alla finestra aveva finito di mangiare la pesca: si pulì la bocca sul braccio. — Vulcano? Devi proprio usare tante parole così difficili? Cos’è un vulcano?

— Chiedo scusa, Madam. Un vulcano è una montagna con un buco in cima. Di tanto in tanto, dal buco esce il fuoco della terra, in un fiume di materia fusa che scende dal fianco della montagna e brucia tutto. Sapevi, mia cara, che l’interno della Terra è un nucleo di fuoco? Ogni giorno, tu cammini sopra una cantina piena di fuoco, mia cara. E adesso basta con le domande, o non racconto più niente. — Ma era il ragazzo, Garth, che si mostrava allarmato, e addirittura lanciava occhiate timorose intorno ai propri piedi; la donna era soltanto divertita, e non ci credeva. — Sì, ero cresciuto in quel mondo, e mio padre era un dottore e un saggio. Mia madre dipingeva quadri. Ce n’è qualcuno a Nuber; lei era più brava di tutti i pittori che voi conoscete… e naturalmente aveva a disposizione materiale migliore per lavorare. Mio padre era conosciuto come il dottor Isaac Freeman di Hesterville, e il mio nome… oh, il mio nome era Adam Freeman. Non ho mai parlato, prima, di queste cose. — E adesso che cosa ti prende? Perché continui a parlarne e con tanto impaccio? Non è questo che i tuoi ascoltatori vogliono, Demetrios. Vogliono romanzi d’amore e d’avventura, fiabe, persino allegorie, se sei cauto, ma certo non la storia di come stavano realmente le cose. Beh, il vento soffia da est. — Debbo trovare il filo, care anime. Allora il mio nome non era Demetrios. Era Adam Freeman.

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