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Frank Herbert: Il cervello verde

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Frank Herbert Il cervello verde

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In un mondo sovrappopolato, che cercava spazio vitale nella giungla, l’Organizzazione Ecologica Internazionale sterminav sistematicamente dei voraci insetti che rendevano inospitali quelle zone. Uomini come Joha Martinho e i suoi aiutanti usavano bombole schiumogene mortali e nuove armi a vibrazione per ripulire l’inferno verde del Mato Grosso. Ma, per ragioni sconosciute, le aree già disinfestate completamente incominciarono a essere di nuovo assalite dagli insetti malgrado le impenetrabili barriere. Dalla giungla si sentirono strane storie… insetti divenuti enormi… creature dalle sembianze umane, ma i cui occhi avevano quel particolare scintillio degli insetti.

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L’agitazione del Cervello fece accorrere i suoi as­sistenti che prontamente gli somministrarono dei narcotici. Il Cervello cadde in un dormiveglia letar­gico e sognò di essersi trasformato in una creatura simile agli umani e di percorrere un sentiero imma­ginario con un fucile in mano.

Persino in sogno il Cervello si agitò per tema che il «gioco» gli sfuggisse. E poiché qui gli insetti infer­mieri non potevano soccorrerlo, l’agitazione del Cer­vello continuò.

Joao si svegliò all’alba e trovò il fiume avvolto in un manto di nebbia. Si sentiva le membra rigide e intorpidite e i suoi pensieri erano confusi a causa di una fastidiosa sensazione, sfocata come la nebbia sul fiume. Il cielo aveva il colore del platino.

Emerse in lontananza un’isola celata dal velo spet­trale della nebbia. La capsula, trasportata dalla cor­rente, si mosse velocemente superando cataste di tronchi, cespugli sommersi ed erba piegata a valle che vibrava con la corrente.

Joao si accorse che la capsula si inclinava sul fianco destro. Sapeva di dover uscire a pompare il galleggiante e sapeva di aver sufficiente energia per fare quel lavoro, ma non riusciva a trovare la for­za per muoversi.

«Quando ha cessato di piovere?» risuonò la voce di Rhin.

Chen-Lhu rispose dal fondo della cabina: «Appe­na prima dell’alba». Diede alcuni colpi di tosse, poi disse: «Ancora nessuna traccia dei nostri amici, non è vero?»

«Ci stiamo inclinando a destra», osservò Rhin.

«Me ne sono accorto», fece Chen-Lhu. «Vado fuo­ri io, Johnny. Credo che si debba introdurre il tu­bo della bombola nel galleggiante e azionare l’im­pugnatura a leva.»

Dentro di sé Joao gli fu grato per essersi offerto di compiere quel lavoro.

«Allora, Johnny?»

«Sì… è tutto quello che deve fare», rispose il giovane. «Il foro d’ispezione del galleggiante è prov­visto di una semplice chiusura a scatto.» Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Udì Chen-Lhu usci­re dal portello.

Rhin guardò Joao e notò sul suo volto i segni del­la stanchezza. Gli occhi chiusi cerchiati di scuro sembravano le orbite di un teschio.

Il mio ultimo amante, pensò. Morte.

Il pensiero la confuse e si meravigliò di non pro­vare alcun sentimento verso l’uomo che durante la notte l’aveva amata con passione. Una tristezza post coitum si era impadronita di lei e adesso Joao era semplicemente una particella della realtà che la circondava; dopo averla sfiorata per puro caso, si era fermato a dividere con lei un momento di esplosiva intensità.

Non c’era amore in quel pensiero.

Nemmeno odio.

I suoi sentimenti adesso erano asessuati e clinici come al solito. Il rapporto durante la notte era sta­ta una reciproca esperienza, ma il mattino l’aveva trasformato in qualcosa di insipido.

Si volse e seguì con lo sguardo la corrente del fiu­me.

La nebbia stava dileguandosi. Intravide, a circa due chilometri di distanza, la nera superficie di una roccia lavica che torreggiava sulla giungla simile a una nave fantasma.

Udì il risucchio dell’aria nella pompa e notò che la posizione della capsula si stava gradualmente rie­quilibrando.

Poco dopo Chen-Lhu riapparve portando nella cabina un soffio d’aria umida e fredda. «È quasi freddo, là fuori», disse. «Che cosa dice l’altimetro, Johnny?»

Joao si alzò e guardò il cruscotto. «Seicento e ot­to metri.»

«Secondo lei, quanta strada abbiamo fatto?»

Joao alzò le spalle e rimase in silenzio.

«Circa centocinquanta chilometri?» chiese Chen-Lhu.

Joao guardò gli argini inondati che scorrevano ve­loci, la corrente che lambiva nodose, orrende radici. Si accorse di avere fame. Cercò i pacchetti delle ra­zioni, le distribuì ai suoi compagni, quindi mangiò avidamente.

Una cortina di pioggia sferzò il parabrezza. La cap­sula sbandò e s’inclinò. Un’altra raffica di vento la scosse. Poi riprese la sua rotta attraversando file di piccole onde sollevate dal vento. La spessa cortina di pioggia cancellava sulle sponde tutti i colori della vegetazione. Il vento cessò completamente, ma la piog­gia continuava a cadere così pesantemente che le gocce sembravano dondolare e danzare in senso orizzontale.

Un breve tratto di spiaggia chiazzata di graniti sfrecciò davanti agli occhi di Joao come uno scena­rio surreale. In quel punto il fiume sembrava largo almeno un chilometro; la sua superficie scura e mel­mosa, turgida e ondulata, era cosparsa di cortecce di alberi, grovigli di arbusti e tronchi galleggianti.

D’un tratto la capsula barcollò. I galleggianti sbat­terono, urtarono contro qualcosa sott’acqua e Joao trattenne il respiro nel timore che la riparazione ce­desse.

«Secche?» chiese Chen-Lhu.

Spuntò alla loro sinistra un ceppo di legno che, trasportato dalla corrente, roteava e s’inabissava come una cosa vivente.

Rhin bisbigliò: «Il galleggiante…»

«Sembra che regga», disse Joao.

Un calabrone verde si posò sul parabrezza, agitò le antenne verso di loro e volò via.

«Qualunque cosa ci accada, suscita il loro interes­se», disse Chen-Lhu.

«Quel troncone laggiù… non credi che…» fece Rhin.

«Sono pronto a credere qualsiasi cosa», repli­cò Chen-Lhu.

Rhin chiuse gli occhi e mormorò: «Li odio! Li odio!»

La pioggia stava gradualmente diminuendo. Po­che gocce spruzzavano qua e là la superficie del fiu­me e tamburellavano sulla calotta.

Rhin aprì gli occhi e vide strisce di cielo limpi­do apparire e scomparire dietro le nuvole. «Si sta schiarendo?» chiese.

«Che differenza fa?» disse Chen-Lhu.

Lo sguardo di Joao vagava sull’erba piatta e ba­gnata di una radura apparsa alla loro sinistra. Do­ve finiva l’erba, spuntava la parete umida e verde della giungla.

Una figura fluttuante emerse dalla giungla a cir­ca duecento metri di distanza; continuò ad agitarsi e a fare cenni finché scomparve dalla vista.

«Che cos’era?» chiese Rhin con una nota isterica nella voce.

Nonostante la distanza, a Joao parve che quella fi­gura assomigliasse al Padre. «Vierho?» mormorò.

«Aveva il suo aspetto», rispose Chen-Lhu. «Non pensa…»

«Non penso nulla!»

Ah, pensò Chen-Lhu. Il nostro amico bandeirante sta per crollare.

«Sento un rumore», disse Rhin. «Sembra quello delle rapide.»

Joao tese l’orecchio. Gli giunse un rombo lontano. «Probabilmente è il vento che soffia tra gli alberi», spiegò, pur sapendo che non si trattava del vento.

«Sono le rapide», affermò Chen-Lhu. «Vedete quel­la rupe, laggiù?»

Continuarono a fissare davanti a loro finché raf­fiche di vento avvolsero la rupe con un velo di piog­gia. Violenti scrosci di pioggia sferzavano i fianchi della capsula, si riversavano sulla calotta. Il vento cessò rapidamente, così com’era sorto e la corrente sospinse la capsula in avanti, attraverso un sibilo di pioggia. Poco dopo anche la pioggia cessò e la liscia superficie del fiume, che nascondeva una se­greta turbolenza, si distese come un’esposizione di tavole su uno specchio.

La capsula divenne per Chen-Lhu un minuscolo giocattolo rimpicciolito come per magia e smarrito in un’immensa distesa d’acqua.

Al di sopra di tutto si ergeva la nera facciata della rupe, più reale ogni secondo che passava.

Chen-Lhu mosse lentamente il capo da una parte e dall’altra, angosciato al pensiero di ciò che li aspet­tava sotto quella rupe. Aveva la sensazione di gal­leggiare in una cavità piena d’aria umida che pro­sciugava la vita dal suo corpo. L’aria trasportava un odore di materia organica, l’umido ammucchiarsi di vita e di morte sul suolo della foresta che fiancheg­giava il fiume. Odori putridi lo assalirono; ciascuno trasportava il suo messaggio: «Sono laggiù… in at­tesa».

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