Ma Joao, che aveva notato il tono alto della loro voce, ripensò a Vierho, il Padre, che sentenziava: «Una persona tende ad alzare la voce quando si sente sola e perché si è staccata da tutto quello che aveva nella vita. Ma non importa quanto si odia la vita, perché la si ama comunque. È come un calderone che bolle con dentro tutto ciò che si deve avere, ma che scotta le labbra».
D’un tratto Joao si sporse in avanti, afferrò Rhin per le braccia e la baciò, stringendola forte a sé. Solo dopo un breve attimo di esitazione, le labbra di lei, calde e tremanti, risposero al bacio. Subito dopo, Joao si staccò, la sospinse sul sedile e si acquattò nuovamente al suo posto.
Non appena riprese fiato, Rhin disse: «Si può sapere che cosa ti ha preso?»
«In ognuno di noi si nasconde un temperamento animalesco», fece Joao.
Prende le mie difese? si chiese Chen-Lhu, rizzandosi come un fuso. Non so cosa farmene di simili difese.
Ma Rhin scoppiò a ridere, soffocando la collera di Chen-Lhu, e si protese in avanti per accarezzare la guancia di Joao. «Non l’hai fatto solo per quello, vero?»
E Chen-Lhu pensò: Sta solo facendo il suo dovere. Come recita bene! È un’attrice nata. Sarebbe un peccato doverla uccidere.
Come sono inclini a comportamenti incoerenti, questi umani, pensò il Cervello. Persino di fronte a pressioni terribili, litigano, amoreggiano e danno troppa importanza a frivolezze.
I messaggi giunsero attraverso la pioggia e la luce del sole che si alternavano all’esterno della caverna. Adesso non c’era più alcuna esitazione nelle direttive del Cervello; la decisione essenziale era stata presa: «Catturate oppure uccidete i tre umani nella gola del fiume; risparmiate le teste ‘in vivo’, se è possibile».
Ciononostante i rapporti continuavano ad affluire perché il Cervello aveva ordinato: «Tenetemi informato sulle loro conversazioni».
Tutto quel parlare di Dio, pensava il Cervello. È possibile che un essere del genere esista?
E il Cervello rifletté che senza dubbio le doti naturali degli umani implicavano un alone di grandezza che esaltava la banalità delle loro azioni.
È possibile che la banalità sia una specie di codice? si domandava il Cervello. Ma come può essere…? A meno che in quella incoerenza emotiva, in quei discorsi su Dio ci sia molto di più di quello che appare in superficie.
Il Cervello aveva cominciato a muoversi nel campo della razionalità come un pragmatista ateo. Ma adesso nei suoi calcoli cominciavano a farsi strada alcuni dubbi, e il Cervello classificava il dubbio tra le emozioni.
Eppure devono essere fermati, pensò il Cervello. Devono essere fermati a tutti i costi. Il problema è troppo importante… anche per questo affascinante terzetto. Se sono ormai perduti, cercherò di piangerli.
Rhin aveva la sensazione di trovarsi in un serbatorio surriscaldato, al centro del quale galleggiava la capsula. La cabina era diventata una cella infernale: l’afa mista a umidità le toglieva il respiro. La sensazione sgocciolante della traspirazione, l’odore dei corpi troppo vicini, l’onnipresente tanfo di muffa, tutto questo la logorava e la tormentava fino al limite della sopportazione. Non si udiva alcun animale muoversi e gridare dalle sponde che scorrevano di fianco a loro.
Soltanto un occasionale insetto volteggiante sulla loro rotta le riportò alla memoria le creature nascoste nelle ombre della giungla.
Se non fosse per gli insetti, pensò. Maledetti insetti! E il calore… maledetto calore!
D’un tratto fu colta da un attacco isterico e si mise a urlare: «Non si può fare qualcosa?» Cominciò a ridere come una folle.
Joao la prese per le spalle e la scosse finché lei si abbandonò a una crisi di pianto.
«Vi prego, vi prego, fate qualcosa», supplicava.
Joao le parlò con voce controllata, nel tentativo di darle conforto. «Cerca di calmarti, Rhin.»
«Quei dannati insetti», disse lei.
La voce di Chen-Lhu la rimproverò dal fondo della cabina. «Fammi il piacere di non dimenticare, dottor Kelly, che sei un entomologo.»
«Forse per questo mi sento il cervello pieno di mosche», disse lei. Trovò la sua battuta divertente e ricominciò a ridere. Una scossa del braccio di Joao la fece smettere. Lei gli prese le mani e disse: «Va meglio, adesso, molto meglio. È colpa del caldo».
Joao la guardò negli occhi. «Sei sicura?»
«Sì.» Si liberò della stretta delle sue braccia, si sedette in un angolo e guardò fuori del finestrino.
Lo scorrere veloce delle sponde attirava il suo sguardo in modo ipnotico: due movimenti che si fondevano. Era come il tempo (l’immediato passato mai completamente dimenticato, nessun punto fisso da cui inizia il futuro), tutto quanto mescolato in un unico silenzioso passaggio, in un unico periodo ininterrotto.
Come mai ho scelto questa professione? si domandava.
Come in risposta alla sua domanda, le si proiettò nella memoria l’intera sequenza di un fatto accadutole durante la fanciullezza e in seguito dimenticato. Aveva sei anni ed era il periodo che suo padre aveva trascorso nell’America occidentale per scrivere un libro su Johannes Kelpius. Avevano abitato in una vecchia casa di mattoni, le cui mura erano piene di nidi di formiche alate. Suo padre aveva mandato a chiamare un uomo tuttofare per bruciare i nidi, e lei si era messa in disparte a osservare. Ricordava l’odore acuto del cherosene, l’improvvisa fiammata gialla nella luce del sole seguita da nuvole di fumo nero e il vortice di insetti svolazzanti dalle ali color ambra che la avviluppava, freneticamente.
Era corsa a rifugiarsi in casa, urlando, mentre le creature alate le strisciavano intorno, le si aggrappavano addosso. In casa qualcuno l’aveva presa e portata a viva forza nella stanza da bagno e una voce piena d’ira le aveva ordinato: «Togliti quegli insetti di dosso! Che idea, portarli dentro casa. Vedi di non lasciarne uno solo sul pavimento. Uccidili e gettali nel gabinetto».
Per un momento che le era sembrato eterno, aveva urlato e battuto i pugni sulla porta chiusa a chiave. «Non moriranno! Non moriranno!»
Rhin scosse il capo per scacciare quel ricordo. «Non moriranno», bisbigliò.
«Che cosa?» chiese Joao.
«Niente», rispose lei. «Che ora è?»
«Presto sarà buio.»
Rhin teneva lo sguardo fisso sui litorali che scorrevano, alberi di felci e palme, con l’acqua alta che cominciava a riversarsi attorno ai tronchi. Ma il fiume era ampio e la corrente ancora veloce. Nella luce solare che filtrava attraverso i rami, le parve di vedere dei battiti di ali, dei movimenti rapidi e leggeri. Uccelli, si augurò. Ovunque si trovassero, le cose si muovevano così rapidamente che le pareva di vederle solo dopo che se ne erano andate.
A oriente, dense nuvole scure si ammassavano all’orizzonte e lampi silenziosi guizzavano nel cielo. Dopo un lungo intervallo, giunse il rombo del tuono, un martellare sordo e continuato.
La pesantezza dell’attesa era sospesa sul fiume e sulla giungla. Le correnti strisciavano attorno alla capsula come serpenti, un movimento melmoso, scuro e vellutato, che sospingeva i galleggianti: una spinta e una curva… una spinta, una giravolta e una curva.
È l’attesa, pensò Rhin. Gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Qualcosa non va, mia cara?» chiese Chen-Lhu.
La sua prima reazione fu di scoppiare a ridere, ma non volle lasciarsi trascinare dall’isterismo. «Sei proprio un figlio di puttana», disse. «Qualcosa che non va!»
«Ahhh, vedo che non hai abbandonato il tuo spirito combattivo», osservò Chen-Lhu.
L’ombra grigia e luminosa di una nuvola passò sopra la capsula smorzando tutti i contrasti di colore.
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