«Temevo infatti che tu la vedessi in questa luce», disse la cieca, con voce piena d’una grave tristezza. «Ho parlato a Nora Quain, e mi ha detto che non può soffrire quella ragazza. Turk non ha lasciato dubbi in proposito e quanto a me sai come la penso. C’è una ragione dietro tutto ciò, Will, che tu devi sapere.»
Barbee se ne stava seduto tutto impettito e piuttosto seccato, anche. Dopo tutto, scegliere le sue amiche non toccava né alla vedova di Mondrick né alla moglie di Sam Quain. Ma non disse nulla. Turk si stirò davanti al fuoco, tenendo sempre gli occhi fissi su Barbee.
«Quella donna è pericolosa», riprese la cieca, «e pericolosa soprattutto per te.» Si chinò su di lui, mentre strani riflessi rilucevano sui suoi antichi monili d’argento. «Devi promettermi, Will, che non la rivedrai mai più.»
«Ma, Rowena!», esclamò lui, cercando di assumere un tono scherzoso e, soprattutto, di non pensare alla confessione di April, la sera prima. «Non ti sembra che io sia maggiorenne già da molti anni?»
Ma la vecchia non sorrise.
«Io sono cieca, Will», e piegò un poco la testa canuta, come se vedesse dietro le lenti nere, «ma non a tutto. Ho partecipato all’attività di mio marito fin da quando ero ragazza. Ho avuto la mia piccola parte nella strana, solitaria guerra terribile che lui ha combattuto per tanti anni. Ora è morto... assassinato, ho tutte le ragioni per crederlo.»
La cieca fece una pausa, e si eresse sulla persona.
«E quell’affascinante tua April Bell», soggiunse con voce ancor più sommessa, «deve essere il nemico segreto che lo ha ucciso!»
Barbee aprì la bocca per rispondere, ma s’accorse che non poteva dir nulla. L’impulso di difendere a ogni costo April Bell fu tuttavia più forte d’ogni altra considerazione.
«Non lo credo, possibile», riuscì a dire.
«Quella donna ha assassinato mio marito», disse Rowena con voce improvvisamente così aspra che Turk si alzò, inquieto, e venne a porsi alle sue spalle. «E ora sei tu in pericolo.»
«Andiamo, Rowena!», disse lui, cercando ancora di ridere. «April è una ragazza simpaticissima, e io non soffro di allergie.»
«April Bell non cercherà di ucciderti, Will», riprese con voce più calma la cieca. «Il pericolo che ti minaccia è qualcosa di diverso dalla morte, qualcosa di più orribile. Perché lei cercherà di cambiarti... di destare in te qualcosa che non dovrebbe mai essere risvegliato.»
Col pelo improvvisamente irto, Turk venne a sfiorare col fianco la gonna nera della cieca.
«È una donna perfida, Will. Io posso vedere il male in lei, così come so che vuole acquisirti alla sua specie perversa. Sarebbe meglio per te morire, come il mio povero Marck, anziché seguirla sulla via in cui tenterà di portarti. Credimi, Will!»
La donna gli aveva preso le mani, in un gesto di materna implorazione. Dolcemente, Barbee si liberò da quelle mani fredde e dolenti, e cercò di dominare il brivido che sentiva venire.
«No, Rowena», disse penosamente, «temo di non poterti credere. Ritengo che la morte di tuo marito sia dovuta a un eccesso di sforzi e di strapazzi, inevitabilmente fatali per un uomo di settant’anni e da troppo tempo sofferente.» Si alzò e fece qualche passo verso il pianoforte. «Non vuoi suonarmi qualche cosa? Potrebbe farti bene, Rowena.»
«No, non ho tempo di pensare alla musica, ora», rispose la cieca, accarezzando nervosamente la testa del cane. «Devo unirmi a Sam, e a Nick e Rex, nella lotta che il mio povero Marck ha dovuto abbandonare. Senti, Will, non vuoi proprio riflettere su quanto ti ho detto e stare lontano da April Bell?»
«Dammi retta, Rowena», rispose lui, cercando di assumere il tono più affettuoso possibile, «ho l’impressione che a forza di pensare e riflettere tu ti sia stancata più del necessario. Io non posso persuaderti del contrario, se pensi quello che pensi, ma sono convinto che dovresti dare un po’ di riposo alla tua mente affaticata. Vuoi che telefoni per te al dottor Glenn?»
La cieca si ritrasse da lui indignata, mentre il cane faceva sentire un cupo brontolio.
«No, Will, non sono pazza. E non ho bisogno delle cure di nessuno psichiatra.» Addolcì il tono. «Tu, forse, ne avrai bisogno... prima che la tua amicizia con April Bell si concluda.»
«Scusami, Rowena», disse lui bruscamente. «Devo andare.»
«Will, no!» Il grido risuonò mentre lui era già in anticamera. «Non fidarti...»
Non udì altro, era già fuori.
Ritornò in città e si recò al giornale, ma gli fu difficile concentrarsi sul suo lavoro in cronaca. Aveva l’intenzione di andare a trovare April, ma chissà perché continuò a rimandare. Divorato dal desiderio di vederla, non aveva tuttavia trovato nella chiara luce del sole un solo pensiero capace di dissipare le sue incertezze e i suoi dubbi sulla misteriosa ragazza. E quando alla fine uscì dal giornale era troppo tardi per fare una visita, si disse con un senso di penoso sollievo.
Si fermò per bere un bicchierino al bar sotto il giornale; finì per berne tre o quattro, e anzi si prese anche una bottiglia da portarsi a casa, nel suo malinconico appartamentino da scapolo in Bread Street. Una doccia calda, si disse, avrebbe aiutato l’alcool a distendergli i nervi. Si stava spogliando, quando si ritrovò in tasca la spilla di giada.
Rimase a lungo a fissare con aria assente il minuscolo oggetto, mentre lo faceva girare sulla palma umida...
Il piccolo occhio di malachite aveva lo stesso colore degli occhi di April, nei suoi momenti più ostili e combattivi. Ricordando la pelliccia bianca della ragazza, Barbee pensò improvvisamente che per lei quel piccolo lupo doveva essere un simbolo molto importante. Il dottor Glenn doveva averla trovata, dal punto di vista psicanalitico, un soggetto molto interessante. Barbee desiderò poter andare a leggere nella sua cartella clinica, che Glenn indubbiamente conservava.
Gli occhi gli bruciavano e s’accorse di avere un tal sonno che il lupo, sembrava, gli strizzava il verdastro occhio di malachite. Quella dannata spilla quasi quasi lo stava ipnotizzando. Resistette al selvaggio impulso di scagliarla giù nello scarico della toilette, e la depose in una vecchia scatola da sigari, a far compagnia a un ditale, al suo vecchio orologio da tasca, a una penna stilografica rotta e a molte lamette arrugginite. Per l’ennesima volta, si disse che doveva bere meno, se non voleva diventare isterico e impressionabile come una vecchia zitella.
Pure, non gli era possibile sottrarsi alla considerazione, anche se estremamente improbabile, che April fosse — ed era riluttante ad accettare la parola — una strega.
Una creatura diversa dalle altre, preferiva pensare Barbee. Ricordò di avere letto a suo tempo qualcosa sugli esperimenti di Rhine sulla parapsicologia, alla Duke University. La scienza aveva potuto dimostrare in quel caso che vi sono individui i quali percepiscono il mondo esterno mediante qualcosa che è al di là della normale percezione dei sensi.
Alcuni sì, altri no. April Bell non poteva essere nata con quella stessa differenza, spinta al massimo grado?
Il calcolo delle probabilità... Si ricordò d’una lezione che Mondrick aveva fatto sull’argomento quando ancora insegnava antropologia. La probabilità, aveva detto Mondrick, era il concetto chiave della fisica moderna. Le leggi di natura non erano assolute, aveva precisato, ma semplicemente stabilivano delle medie statistiche. Il fermacarte sul suo tavolo — una piccola lampada di terracotta, scavata tra le rovine dell’antica Roma, con la lupa che allatta i gemelli fondatori dell’Urbe — era tenuto insieme soltanto dalle collisioni casuali d’un certo numero di atomi in vibrazione. In qualsiasi momento c’era una probabilità, minima ma definita, che potesse disintegrarsi e cadere attraverso l’apparente solidità del tavolo.
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