Jack Williamson - Il figlio della notte

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Il figlio della notte: краткое содержание, описание и аннотация

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Il ritorno dalla Mongolia della spedizione del celebre professor Mondrick segnerà forse l’inizio di un’era nuova nella storia dell’umanità. Perchè in una certa cassa che gli esploratori portano dal deserto di Gobi sono contenute le prove di una guerra spietata e segreta, che si combatte da innumeri millenni. E il campo di battaglie è il subcosciente stesso della razza umana, dove il Maligno sembra sferrare i suoi colpi più mortali e insidiosi. Perchè il genere umano, ha scoperto Mondrick, è un ibrido: il sangue dell’Homo sapiens è, ormai, contaminato da quello dell’Homo lycanthropus, l’antichissima razza caina… Ma la scoperta di Mondrick esige le sue vittime e un orrendo pericolo minaccia di nuovo l’umanità. Le forze del male sono scatenate e gli angeli ribelli tentano ancora una volta di rialzare il capo. Metapsichica e psicocinesi sono le strane scienze a cui questo romanzo senza precedenti nella letteratura del “soprannaturale” sembra ispirarsi. E’ un romanzo che non si dimentica!

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«Ricordavo tutto quello che la vecchia levatrice mi aveva detto. Inventai una specie di nenia sulla morte del cane e mi misi a mormorarla all’ora dei pasti. Raccolsi alcuni peli dalla sua cuccia, vi sputai sopra e li bruciai nella stufa della cucina. E attesi la morte di Tige.»

Barbee sentì il bisogno di attenuare la terribile tensione che sentiva emana­re dalla ragazza:

«Eri ancora una bambina», disse. «Giocavi, in fondo.»

«Tige divenne idrofobo la settimana dopo», disse lei tranquillamente, «e mio padre dovette ammazzarlo con una fucilata.»

Barbee si mosse a disagio.

«Una coincidenza», disse.

«Può darsi.» E negli occhi di April passò un’espressione beffarda. «Ma io non lo credo.» Ancora l’ombra di un antico dolore oscurò il pallido volto enigmatico. «Io credevo nel mio potere. Harry vi credeva anche lui, ormai. E anche mio padre ci credette, quando Harry gli disse della minaccia che avevo fatto a proposito del cane. Corsi dalla mamma, che stava cucendo, ma mio padre mi trascinò fuori di casa e mi frustò ferocemente!»

Le sue dita lunghe e affusolate presero il bicchiere e lo alzarono, tremanti, per poi deporlo di nuovo sul tavolo, senza averlo avvicinato alle labbra.

«Mio padre mi martirizzò, quella volta, e fu terribilmente ingiusto. Ma men­tre mi staffilava con tutta la sua forza, gli urlai che mi sarei vendicata. Appe­na mi lasciò andare, corsi pesta e sanguinante direttamente nella stalla dove, strappati un ciuffo di peli alle tre vacche migliori e al toro che mio padre aveva appena comprato per la monta, vi sputai sopra, li bruciai con un fiam­mifero e sotterrai il mucchietto di cenere dietro la stalla. Poi feci un’altra cantilena.»

April fissava lo sguardo davanti a sé, attraverso il fumo rossastro della sala.

«Dopo una settimana il toro morì, e il veterinario disse che si era trattato di setticemia emorragica. Anche le tre vacche morirono, insieme con la miglior giovenca d’un anno e due giovani buoi. Mio padre ricordò le minacce che avevo gridato sotto la sferza e Harry disse di avermi visto scavare dietro la stalla. Allora mio padre mi frustò fino a quando dovetti confessare.»

Bruscamente, con la rapidità morbida ed elegante di un felino, April bevve il cocktail d’un fiato. Le sue pupille verdi si fissarono su Barbee, dure e vitree, come se non lo vedessero. Nervosamente, le dita sottili cominciarono a far girare il calice su se stesso, e a un tratto il fusto si spezzò e la coppa di cristallo andò a infrangersi sul pavimento. Lei parve non essersene accorta, perché riprese, cupa e sommessa:

«Fu una notte spaventosa, Will. Mio padre mandò tutti gli altri ragazzi a casa di quella nostra sorella sposata, per sfuggire all’orrore degli esorcismi, disse, ed evitare la maledizione dell’ira del Signore. Rimanemmo in casa sol­tanto la mamma e io, per pregare insieme, minacciò mio padre, e prepararmi a patire il giusto castigo per i miei peccati. Non dimenticherò mai quella notte. Mia madre che invocava pietà per me, dopo essersi inginocchiata da­vanti a mio padre, che andava e veniva come un dio furibondo sul pavimento di assi spezzate della cucina. Ma mio padre non l’ascoltava nemmeno. Urlava le sue domande e le sue accuse a mia madre e a me, fermandosi ogni tanto a leggere la Bibbia alla luce di una fumosa lampada a petrolio. Più volte rilesse la terribile frase: “Non tollererai che una strega viva”.».

Per evitare che la sua mano tremante si tagliasse sui frammenti aguzzi del bicchiere, Barbee le tolse dalle dita il mozzicone del calice. La ragazza non parve accorgersene.

«La tetra cerimonia durò quasi tutta la notte. Mio padre ci faceva inginocchiare e pregare. Poi riprendeva la sua marcia agitata per la cucina, urlando e maledicendo mia madre e me. La faceva risollevare a strattoni, quando la mamma gli si inginocchiava davanti, e poi a ceffoni la spingeva qua e là per la stanza, rimproverandola di avere concepito nel suo seno una figlia strega. Infine, strappatami dalle sue braccia, ricominciava a frustarmi, riducendomi ogni volta quasi priva di sensi; e dopo tornava a leggere la Bibbia: “Non tollererai che una strega viva”.»

Barbee si accorse d’essersi tagliato un dito, coi frammenti del calice. Con cura ripose tutti i pezzetti di vetro nel portacenere, si asciugò le goccioline di sangue col fazzoletto, e accese un’altra sigaretta.

«Avrebbe certamente finito con l’uccidermi», continuò April, «se mia ma­dre, all’ultimo, non avesse osato aggredirlo. Gli ruppe una sedia sulla testa, ma lui non parve nemmeno accorgersene. Mi lasciò andare, tuttavia, e si diresse verso il fucile, appoggiato al muro presso la porta. Capii che stava per ammazzarci tutt’e due, e allora mi misi a cantare una nenia magica per impe­dirglielo. Riuscii anche questa volta, perché cadde per terra nell’istante in cui tendeva il braccio per prendere il fucile. I medici dissero poi che si tratta­va di emorragia cerebrale. E gli consigliarono di non perdere tanto facilmen­te la calma, in avvenire. Non ebbe il modo di perderla, comunque, perché cadde morto il giorno stesso in cui uscì dall’ospedale, alla notizia che mia madre era scappata con me in California.»

Barbee rimase piuttosto stupito nel constatare che il cameriere aveva spaz­zato via i resti del bicchiere e servito altri due dacquari sul tavolino. April Bell portò il suo alle labbra avidamente. Barbee pescò altri due dollari nel portafogli sgonfio, e si chiese vagamente a che cosa sarebbe ammontato il conto quando avessero ordinato il pranzo. Si mise a sorseggiare il cocktail, stando bene attento a non interrompere.

«Non ho mai saputo esattamente che cosa credesse mia madre.» Ciò rispon­deva esattamente a quello che avrebbe voluto chiederle, ma non osava. «Mi amava moltissimo. Credo che mi avrebbe perdonato qualunque cosa. Ma mi fece promettere, quando fummo al sicuro, lontano dalla casa di mio padre, che non avrei mai più tentato di fare altri malefici. La mamma era molto buona, e tu le avresti voluto un gran bene, Will. Col passare degli anni, credo che abbia finito quasi col dimenticare tutto quello che avevamo passato a Clarendon. So che desiderava dimenticare con tutta l’anima. Non espresse mai il desiderio di tornare, nemmeno per rivedere i suoi vecchi amici di qui. So che l’avrebbe addolorata atrocemente sapere quello che ero... che sono realmente.»

Una strana, liquida dolcezza colmava ora gli occhi verdescuri di April.

«Mantenni la promessa di non fare più malefici», disse quasi teneramente. «Ma nulla avrebbe potuto impedirmi di sapere quali forze si andassero de­stando e sviluppando in me. Nulla poteva impedirmi di sentire ciò che gli altri pensavano, di prevedere cose che sarebbero avvenute.»

«Lo so», disse inaspettatamente Barbee. «È quello che nel nostro mondo chiamiamo aver naso, o fiuto, o il senso delle notizie.»

Lei scosse il capo, gravemente.

«È ben altro», disse; e poi, come se non volesse perdere tempo a spiegare a chi non poteva capire: «Non ricorsi più a fatture o incantesimi, ma molte cose continuavano ad accadere, senza che io le volessi direttamente».

Il giornalista l’ascoltava intento, e cercò di non farle vedere gli strani brividi che a tratti lo percorrevano.

«Avevo una compagna di università, per esempio, che non potevo soffrire: di quelle ragazze, sai, dotate di una specie di soave perfidia, che citano sem­pre la Bibbia, più o meno a sproposito, e s’impicciano della vita degli altri, esattamente come facevano le mie sorellastre. Vinse una borsa di studio per il corso di giornalismo, la stessa sulla quale avevo riposto tutte le mie speran­ze e che, sapevo, lei era riuscita a vincere solo attraverso inganni e sotterfugi. Non potei fare a meno di augurarle del male.»

«E», ansimò Barbee, «il tuo desiderio fu esaudito?»

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