Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Non avevo il tempo di essere gentile. Mi stava morendo tra le braccia.

— Dove ha portato Elena, Nekoptah?

— Osiride… Osiride…

Scossi il povero vecchio morente.

— Guardami! — pretesi. — Io sono Osiride.

I suoi occhi si spalancarono. Debolmente, cercò di raggiungere il mio viso con la mano senza forze. — Mio signore Osiride…

— Dimmi dove il falso sacerdote Nekoptah ha portato la donna straniera — gli chiesi.

— Al tuo tempio… ad Abtu…

Mi bastava. Posai la testa grigia di Nefertu sulle mattonelle decorate del pavimento. — Ti sei comportato bene, mortale. Riposa in pace, adesso.

Lui sorrise, sospirò, e smise di respirare per sempre.

Il tempio di Osiride ad Abtu. Andai dal principe Aramset e gli dissi cos’era successo.

— Non posso lasciare il palazzo, Orion — disse. — Le spie e gli assassini di Nekoptah possono essere dappertutto. Devo rimanere qui con mio padre.

Fui d’accordo. — Dimmi solo dov’è Abtu e dammi i mezzi per arrivarci.

Abtu era a due giorni di carro a nord della capitale. — Posso farti avere cavalli freschi ogni dieci chilometri — disse il principe. Poi mi offrì Lukka e i suoi uomini.

— No, sono la tua guardia personale, adesso. Non privarti della loro fedeltà. Un auriga e cavalli freschi sono tutto quello che mi serve.

— Nekoptah non sarà solo ad Abtu — mi avvertì Aramset.

— Esatto — dissi. — Ci sarò anch’io.

Prima del sorgere del sole, ero su un carro leggero e solido, vicino a un Egiziano color nocciola che frustava i quattro destrieri lungo la strada che portava a nord.

Non avevo altro che gli abiti che indossavo e una spada di ferro, che Lukka mi aveva dato quando ci eravamo salutati. E il pugnale che era stato mio compagno per tanto tempo e che aveva lasciato la sua impronta sulla mia coscia destra.

Corremmo furiosamente sulla strada, sollevando una nube di polvere dietro di noi, con il mio auriga che grugniva e sbuffava per lo sforzo di tenere sotto controllo i quattro cavalli e i loro zoccoli che rimbombavano sulla terra battuta.

Ci fermammo alle stazioni di posta il tempo sufficiente a sostituire i cavalli e a prendere un po’ di cibo e un sorso di vino.

All’alba del secondo giorno, l’auriga era esausto. Riusciva a malapena a calare dal carro il corpo irrigidito e dolorante, quando ci fermammo a metà strada. Ce lo lasciai. Lui protestò. Mi pregò di farlo continuare, dicendo che il principe lo avrebbe fatto frustare a morte se mi avesse abbandonato. Ma non aveva senso farlo proseguire.

Presi le redini nelle mie mani. L’avevo osservato abbastanza per sapere come occuparmi dei cavalli. La fatica urlava nel mio corpo, ma io sapevo come interpretare i suoi segnali e pompai più ossigeno, ricorsi all’iperventilazione, sempre guidando furiosamente gli animali freschi nel mattino che s’illuminava.

Avevo il fiume sulla sinistra, e superai molte imbarcazioni che si lasciavano trasportare dalla corrente del Nilo. Non abbastanza in fretta per me. Feci schioccare la frusta e i cavalli si sforzarono ulteriormente nelle loro armature.

Ad un curva della strada, mi voltai e diedi uno sguardo dietro di me. Un altro ciuffo di polvere si alzava alle mie spalle, lontano, all’orizzonte. Qualcuno mi stava seguendo alla mia stessa folle velocità. Truppe di rinforzo inviatemi dal re? O Menelao deciso a riprendersi sua moglie? In entrambi i casi, sarebbe stato un aiuto. Poi mi colpì un altro pensiero: potevano essere seguaci di Nekoptah, decisi ad aiutare lui?

Mentre il sole tramontava, passai a velocità folle attraverso un villaggio di piccole case spaventando adulti e bambini, e costeggiai circa un chilometro di giardini circondati da file di alberi e di laghetti graziosamente disposti. Il tempio di Osiride era là in mezzo, in cima a una lunga rampa che portava al fiume. Al molo era ormeggiata una sola barca.

Una mezza dozzina di soldati in armatura di bronzo montavano la guardia davanti all’entrata principale del tempio, quando feci fermare i cavalli coperti di schiuma e saltai giù dal carro.

— Chi sei e cosa stai facendo qui? — domandò il loro capo.

Ero disposto anche a combattere, se fosse stato necessario, ma avrei preferito evitarlo.

— In ginocchio, mortali! — dissi con voce più profonda possibile. — Io sono Osiride, e questo è il mio tempio.

Loro mi guardarono a bocca aperta, poi scoppiarono a ridere. Mi resi conto di essere letteralmente coperto della polvere della strada, e che difficilmente potevo sembrare la gloriosa e radiosa figura di un dio.

— Tu sei uno degli stranieri che il mio signore Nekoptah ci ha detto che avrebbero tentato di entrare nel tempio — disse il capo delle guardie. Sguainò la spada e gli altri si mossero per circondarmi. — Solo per la tua bestemmia, meriti la morte.

Trassi un profondo respiro. Erano sei, piccoli, muscolosi Egiziani con la pelle di un marrone profondo e gli occhi ancora più scuri, il petto protetto dalla corazza, elmi conici di bronzo sulla testa e spade in mano.

— Osiride muore ogni anno — dissi — e ogni volta il sole tramonta. Sono abituato alla morte. Ma non verrò ucciso da mani mortali.

Prima che potesse reagire, gli strappai la spada e la lanciai verso il fiume. La lama di bronzo catturò gli ultimi raggi del sole. I soldati la seguirono con gli occhi mentre descriveva la sua curva, in alto, sopra di loro. Gettai a terra il loro capo e affrontai l’uomo successivo. Cadde con un colpo alla testa. Quando il loro capo riuscì a sollevarsi sulle mani e le ginocchia, io avevo già sopraffatto tutto il suo manipolo.

Puntai un dito sul comandante, ricordando i toni imperiosi che il Radioso aveva usato spesso con me. — Resta in ginocchio, mortale, quando guardi un dio! E sii felice che vi abbia risparmiato la vita.

Tutti e sei affondarono la testa nella polvere, tremando visibilmente.

— Perdonaci, o potente Osiride…

— Resta fedelmente di guardia e sarai perdonato — dichiarai. — Ricorda che sfidare l’ira degli dèi significa andare incontro a una morte dolorosa.

Percorsi il tempio a grandi passi, chiedendomi se un dio avesse mai corso. Non davanti ai suoi fedeli, pensai. Non male per un uomo mandato in quel tempo come strumento senza mente, un servo senza ricordi. Mi ero conquistato il rango di creatore di re e di simulatore della divinità.

Ora, ero nuovamente votato alla vendetta, questa volta non per me stesso ma in nome di un grasso sacerdote innocente e di un vecchio, fedele burocrate, entrambi assassinati solo per essersi trovati tra Nekoptah e il potere. Sfoderai la spada e cominciai la mia caccia personale al Sommo Sacerdote di Ptah.

Percorsi cortili illuminati dalla luna appena sorta e risonanti corridoi, fiancheggiati da colonne e statue degli dèi. Mi imbattei in una fila di piccole stanze, santuari di varie divinità. Nekoptah non era nel sacrario di Ptah, dove guardai per prima cosa. Poi vidi che quello di Osiride aveva una piccola porta sul retro. La raggiunsi e la spalancai.

Era lì tutti e tre, in piedi vicino all’altare di Osiride, illuminati dalle lampade sul muro: Nekoptah, Elena e Menelao.

Lo spodestato re di Sparta era in armatura di bronzo, e teneva nella destra una pesante lancia; Elena, in una sfavillante veste blu-argento, si teneva leggermente dietro di lui.

— Te l’avevo detto! — gridò Nekoptah. — Ti avevo detto che sarebbe venuto a cercarla!

Il viso del sacerdote era senza trucco, e la sua rassomiglianza con Hetepamon era straordinaria. Però, mentre l’espressione del fratello era sorridente e amabile, quella di Nekoptah era collerica e viziosa. Notai che non portava gioielli alle mani tranne che su tre dita, dove gli anelli erano troppo affondati nella carne per poter essere tolti.

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