Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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— Controlla il re.

Si torse le mani grasse. — Allora sono perduto. Non posso aspettarmi nessuna pietà da parte sua. — Gettò uno sguardo circolare all’enorme tempio vuoto, come cercando aiuto dai bassorilievi di pietra degli dèi. — Tutti i sacerdoti di Amon passeranno sotto la sua spada. Non lascerà nessuno di noi, per timore che possiamo minacciare Ptah; e lui stesso.

Era davvero atterrito, e sembrava sul punto di piangere. Mi accorsi che non era né ambizioso né crudele. Come fosse diventato Sommo Sacerdote di Amon non lo sapevo, ma era chiaro che aveva poco potere e nessuna ambizione politica.

Adesso ero sicuro di potermi fidare di quell’uomo che somigliava tanto al mio nemico. Così lo tranquillizzai, dicendogli come Aramset stesse tornando alla capitale a capo di un piccolo esercito, deciso a proteggere suo padre e a prendere il posto che gli spettava come erede al trono.

— È così giovane — disse Hetepamon.

— Un principe del regno matura in fretta — risposi. — O non matura affatto. — Uscimmo dal grande tempio e salimmo per una lunga scalinata di pietra, con Hetepamon che ansimava e sudava, finché non raggiungemmo il tetto della costruzione. Da sotto un tendone ondeggiante, vidi distendersi la città di Menefer e, al di là del Nilo, la grande piramide luccicante di Khufu che si stagliava bianca e appuntita contro le rupi di granito.

Alcuni servi portarono tavoli e sedie, mentre altri arrivarono con carciofi e melanzane a fettine, carne fresca, vino gelato, fichi, datteri e meloni, su vassoi d’argento. Mi resi conto che non eravamo mai stati realmente soli, ma sempre tenuti d’occhio per tutto il nostro giro attraverso i templi. Ero sicuro, però, che nessuno aveva osato avvicinarsi abbastanza da poterci ascoltare.

Rimasi divertito nel vedere che Hetepamon mangiava frugalmente, quasi con delicatezza, mordicchiando qualche foglia di carciofo, evitando la carne, prendendo solo un fico o due. Ma doveva mangiare qualcosa di più di quelle noci che portava con sé, mi resi conto, per conservare quella stazza. Come molte persone molto in sovrappeso, probabilmente mangiava per lo più quando era solo.

Osservammo il sole calare e io pensai al loro Osiride, morto e risorto proprio come me.

Infine, quando gli ultimi raggi del tramonto svanirono sulle rupi e anche la punta luccicante della grande piramide divenne finalmente scura, Hetepamon sollevò la sua enorme mole dalla sedia.

— È ora — disse.

Sentii un tremito nelle viscere. — Sì. È ora.

Scendemmo per la stessa scala, attraverso il tempio principale ormai buio, guidati solo da qualche candeliere sulle gigantesche colonne di pietra. Dietro la statua colossale di qualche dio, i cui lineamenti si perdevano tra le ombre, Hetepamon si avvicinò al muro e passò l’indice tozzo sulla linea di congiunzione di due pietre massicce.

La parete si aprì, mentre l’enorme pietra si sollevava senza far rumore, e noi entrammo silenziosamente nel vano segreto. Una piccola lampada ad olio bruciava fiocamente su un tavolo vicino all’ingresso. Hetepamon la prese e la pietra scivolò di nuovo al suo posto.

Seguii il grasso sacerdote in uno stretto corridoio, alla luce tremolante della lampada che lui teneva in mano.

— Stai attento qui — mi avvertì in un sussurro. — Tieniti sulla destra, contro il muro, o metterai il piede su un trabocchetto.

Seguii le sue istruzioni. Poi, più giù nel corridoio, dovemmo tenere la sinistra. Quindi scendemmo per una lunghissima rampa di scale. Sembrava interminabile. Potevo a malapena scorgere gli scalini alla fiamma instabile della lampada, ma sembravano appena consumati, anche se completamente coperti di polvere. La tromba delle scale si restrinse; le mie spalle sfioravano i muri. Il soffitto era così basso che dovevo tenere la testa chinata in avanti.

Hetepamon si fermò e io andai quasi a sbattergli contro.

— Qui diventa difficile. Dobbiamo saltare il prossimo gradino, toccare il quarto successivo, poi saltare quello dopo ancora. Hai capito?

— Se sbaglio?

Lasciò uscire un lungo sospiro. — Come minimo, l’intera scalinata si riempirà di sabbia. Ma ci potrebbero essere altre trappole di cui non sono a conoscenza; gli antichi costruttori erano molto accurati e molto infidi.

Mi assicurai di seguire le sue istruzioni al millimetro.

Infine arrivammo in fondo alla scala e imboccammo un corridoio leggermente più largo. Cominciavo a sentirmi sollevato. Il più era fatto. Nessun altro avvertimento su trabocchetti o scalini da evitare.

Ci fermammo, ed Hetepamon spinse una porta. Si aprì lentamente, cigolando. Passammo.

Improvvisamente una luce brillò tutt’intorno a noi, dolorosamente forte. Mi misi un braccio sugli occhi, aspettando di sentire la risata derisoria del Radioso.

Invece sentii la mano di Hetepamon che mi tirava. — Non aver paura, Orion. Siamo nella camera degli specchi. È per questo che non abbiamo potuto avvicinarci alla tomba fino a dopo il tramonto.

Abbassai il braccio e, strizzando gli occhi, vidi che ci trovavamo in una stanza completamente rivestita di specchi. Sulle pareti, sul pavimento, sul soffitto, nient’altro che specchi. E non erano piani, ma si piegavano in ogni sorta di strana angolazione, dappertutto tranne che in una specie di passaggio a zig-zag sul pavimento. La luce che mi aveva spaventato era semplicemente il riflesso della nostra modesta lampada, che mandava bagliori sfolgoranti da centinaia di sfaccettature.

Indicando verso l’alto, il grasso sacerdote disse: — Sopra di noi ci sono dei prismi che concentrano la luce del sole. Durante le ore di luce questa camera ucciderebbe chiunque vi entrasse.

Ancora con gli occhi semichiusi, lo seguii fino a un’altra porta cigolante, e di nuovo in uno stretto e buio corridoio.

— Cosa c’è ancora? — borbottai.

Lui rispose piano: — Oh, il peggio è passato. Adesso, non ci resta che arrampicarci su quella piccola scala e saremo nel tempio di Amon, proprio sotto la piramide. Da lì, c’è una lunga salita fino alla camera funeraria, ma non ci sono più trappole.

Non mi pareva vero.

Il tempio era una stanza minuscola, molto sotto il livello del terreno, grande appena abbastanza per un altare, qualche statua e alcune lampade. Tre delle pareti erano rozzamente scavate nella roccia viva; la quarta era coperta di vaghe incisioni. Il soffitto sembrava essere un solo enorme blocco di pietra. Potevo sentire il peso tremendo della massiccia piramide incombere sopra di noi, opprimente, spaventoso, come la mano di un gigante che mi spremeva l’aria dai polmoni. Un’alcova buia mascherava una rampa di scale quasi verticale che portava in alto, verso la camera del re.

Senza dire niente, Hetepamon sollevò la lampada sulla testa e si girò verso la parete istoriata.

L’indicò con la mano libera. — Osiride — sussurrò.

Era il mio ritratto. — E vicino c’era quello della mia Atena.

— Aset — sussurrai anch’io.

Lui annuì.

Così era vero. Eravamo stati entrambi in quella terra migliaia di anni prima, o anche di più. E lei era lì adesso, in attesa che la riportassi in vita. Lo sapevo. Le ero vicino. Il pensiero mi fece tremare ulteriormente.

— Io resterò qui, Orion, mentre tu sali nella tomba di Khufu — disse Hetepamon.

Lo sguardo che gli lanciai doveva essere crudelmente interrogativo.

— Non posso salire per quella scala ripida, Orion — si scusò frettolosamente. — Ti assicuro che non ci sono altri pericoli di cui preoccuparsi.

— Sei mai stato nella camera funeraria? — chiesi.

— Oh sì, tutti gli anni. — Precedette la domanda che gli avrei posto. — La processione entra nella piramide dalla facciata esterna, dove una pietra dotata di cardini funge da porta. La rampa che porta alla tomba è molto più comoda del passaggio che vedi. Nonostante questo — disse sorridendo — devo essere trasportato da otto schiavi molto forti.

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