Ero davanti alla famigliola inginocchiata e stretta insieme, con cinque soldati hatti sul terreno dietro di me e il loro comandante di fronte, con la spada ancora in mano. Aveva la bocca spalancata, gli occhi fuori dalle orbite. Non c’era paura sul suo viso, solo uno stupore che gli bloccava il respiro in gola.
Per’un istante restammo l’uno di fronte all’altro, pronti al combattimento. Poi, urlando un’imprecazione, lui tirò indietro il braccio con la spada per quello che pensai fosse un affondo.
Invece, lanciò l’arma. Vidi la punta volare esattamente in direzione del mio petto. Non ebbi tempo per altro che un piccolo passo di lato. Mentre la lama scivolava oltre la mia veste di pelle io afferrai l’impugnatura. Lo slancio della spada e il mio stesso movimento mi fecero fare un giro su me stesso. Quando mi trovai di nuovo di fronte al soldato, avevo la sua spada in mano.
Sembrava incollato al terreno. Ero sicuro che sarebbe corso via se avesse potuto controllare i suoi piedi, ma lo shock l’aveva immobilizzato.
— Metti insieme i tuoi uomini e portami dal tuo ufficiale comandante — dissi, gesticolando con la spada.
— Tu… — guardava la spada a bocca aperta, senza sollevare lo sguardo su di me. — Tu non sei… umano. Devi essere un dio.
— Serve Atena! — disse con voce acuta Polete, uscendo dal suo nascondiglio nel campo di grano, con un sorriso che mostrava i denti mancanti sul vecchio viso rugoso. — Nessuno può resistere contro Orion, servitore della dea guerriera.
Io gli porsi di nuovo la spada. — Come ti chiami, soldato?
— Lukka — rispose. Gli ci vollero tre tentativi per rimettere la spada nel fodero, tanto gli tremava la mano.
— Non ho niente contro di te, Lukka, o contro qualunque soldato hatti. Portami dal tuo comandante; ho un messaggio per lui.
Lukka era completamente frastornato. Riunì i suoi uomini: uno aveva una mascella rotta; un altro sembrava stordito e aveva gli occhi vitrei da commozione cerebrale.
Il contadino e la sua famiglia si avvicinarono a me strisciando sulle mani e sulle ginocchia e cominciarono a baciarmi i piedi coperti dai sandali. Misi in piedi l’uomo rudemente, prendendolo per le spalle, e dissi alle donne di alzarsi.
— Che tutti gli dèi ti proteggano e facciano avverare ogni tuo desiderio — disse il contadino. Sua moglie e le figlie tennero la testa bassa, fissando per terra. Ma io potei vedere i loro volti rigati di lacrime.
Sentii la bile in gola. Che tutti gli dèi ti proteggano! Nella sua ignoranza pensava che gli dèi si interessassero davvero degli esseri umani, che potessero davvero essere toccati dalle preghiere e dai sacrifici. Se quell’uomo semplice avesse saputo cosa erano gli dèi in realtà, avrebbe vomitato per il disgusto. Eppure, quando guardai nei suoi occhi pieni di lacrime, non potei permettermi di disilluderlo. A cosa sarebbe servito, se non a riempire i suoi giorni del tormento è del dubbio?
— E che gli dèi proteggano te, contadino. Tu fai uscire la vita dal grembo di Madre Natura. Questa è un’occupazione molto più degna del guerreggiare e dell’uccidere.
Dopo altri ringraziamenti, i quattro rientrarono di corsa nella loro capanna per spegnere il fuoco appiccato dai soldati. Io seguii Lukka e i suoi uomini zoppicanti e feriti attraverso il villaggio in fiamme alla ricerca del comandante. Polete trotterellava al mio fianco, recitando un resoconto minuziosissimo di quanto era appena successo, facendo le prove per un futuro racconto.
Mi sembrava chiaro che quello era un contingente assolutamente troppo piccolo per essere l’esercito Hatti. Eppure non c’erano altre truppe nella valle, per quanto Polete ed io avevamo potuto vedere dalla cima della collina. Quella piccola unità poteva essere l’esercito che Ettore e Alessandro si aspettavano dovesse aiutarli?
E se quei soldati erano alleati dei Troiani, perché stavano bruciando un villaggio troiano?
Nella piazza del villaggio, nient’altro che una radura di terra nuda in mezzo alle capanne di mattoni secchi, una processione di soldati si stava snodando oltre una fila di carri e bighe. Il comandante si trovava su una delle bighe, intento a suddividere il bottino tra i suoi uomini. I soldati stavano caricando le misere proprietà degli abitanti del villaggio su un carro, in una lunga fila disordinata: una brocca per il vino a due manici, una coperta, un paio di polli stridenti che sbattevano le ali, una lampada d’argilla, un paio di stivali. Non era un villaggio ricco.
In lontananza potevo sentire le grida e il pianto delle donne. A quanto pareva i soldati non le stavano prendendo prigioniere; le violentavano e le lasciavano ai loro lamenti.
Il comandante era un uomo basso, scuro di carnagione, tarchiato, più simile agli Achei che non Lukka e i suoi uomini. Aveva i capelli e la folta barba di un nero così scuro che sembravano mandare riflessi bluastri. Una brutta cicatrice bianca gli sfregiava la parte sinistra del viso, dalla guancia alla linea della mascella, dividendo la barba. Come gli altri soldati hatti, indossava una maglia metallica; la corazza di pelle, però, era lavorata con arte, e la spada era intarsiata d’avorio lungo l’impugnatura.
Lukka rimase a rispettosa distanza con me al fianco e Polete di dietro, mentre i suoi cinque uomini si allontanavano zoppicando per prendersi cura dei lividi e delle ferite. Il comandante lanciò uno sguardo interrogativo dalla nostra parte, ma continuò a dividere il bottino che i soldati portavano davanti a lui: circa la metà di tutto finiva in un mucchio ai piedi del suo carro; i soldati portavano via per sé l’altra metà. Io incrociai le braccia sul petto e aspettai, l’odore delle capanne che bruciavano nelle narici, il lamento delle donne nelle orecchie.
Infine, l’ultima brocca di terracotta e le ultime capre belanti furono spartite e il comandante fece segno a un paio di uomini scalzi vestiti di rozzi corsetti di raccogliere la sua parte di bottino e di caricarla sul suo carro. Schiavi, pensai. O magari thetes.
Il comandante scese stancamente dalla biga e chiamò Lukka a rapporto piegando il dito.
Osservandomi mentre ci avvicinavamo, disse: — Quest’uomo non è un contadino merdoso.
Lukka si batté il pugno sul petto e rispose: — Dichiara di essere un messaggero di qualche sommo re, signore.
Il comandante mi studiò. Io mi chiamo Arza. E tu?
— Orion — risposi.
— Sembri più un combattente che un messaggero.
Io toccai il bracciale sul mio polso sinistro. — Porto un messaggio del Sommo Re di Hatti al Sommo Re degli Achei, un messaggio di pace e di amicizia.
Arza diede uno sguardo a Lukka, poi spostò i suoi profondi occhi castani di nuovo su di me. — Il Sommo Re dell’Hatti, eh? Bene, il tuo messaggio non vale l’argilla su cui è scritto. Non c’è nessun Sommo Re dell’Hatti. Non più. Il vecchio Hattusilis è morto. La grande fortezza di Hattusas era in fiamme l’ultima volta che l’ho vista.
Polete ansimò. — Gli Hatti sono caduti?
— I grandi nobili di Hattusas combattono tra di loro — disse Arza. — Il figlio di Hattusilis sembra sia morto, stando alle voci.
— Allora cosa state facendo qui? — chiesi.
Lui sbuffò. — Sopravviviamo, messaggero. Meglio che possiamo. Vivendo in questa terra e combattendo le altre bande di soldati e di predoni che cercano di portarci via quello che abbiamo.
Io diedi uno sguardo al villaggio. Un fumo nero e sporco macchiava il cielo terso. I cadaveri che giacevano sul terreno attiravano nuvole di mosche.
— Siete voi stessi una banda di predoni — dissi.
Gli occhi di Arza si strinsero. — Parole dure da parte di un messaggero. — Sghignazzò all’ultima parola.
Ma la mia mente stava andando più in là. — Ti piacerebbe entrare al servizio del Sommo Re acheo? — chiesi.
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