Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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— Sotto il tuo comando — disse Lukka.

Io lo fissai. Era assolutamente serio. Dava per scontato che l’uomo che aveva ucciso Arza avrebbe preso il comando della truppa.

— Sì — dissi — sotto il mio comando.

Fece un ghigno avido. — C’è molto oro a Troia, questo lo so. Abbiamo scortato una carovana di tributi dalla Troade ad Hattusas, una volta. Un sacco di oro.

Così marciammo verso la pianura di Ilio. Adesso ero il capo di un’unità di mercenari che sognavano di saccheggiare la città. L’esercito che Ettore aspettava per difendere Troia non esisteva più; si era diviso in una quantità di bande di predoni, preoccupate solo della propria sopravvivenza.

Lukka divenne automaticamente il mio luogotenente. Lui conosceva gli uomini e io no. Mi considerava poco meno di un dio. Mi faceva sentire a disagio, ma al momento mi serviva. Era un soldato di professione, forte e onesto. Era un uomo di poche parole, ma ai suoi occhi da falco non sfuggiva nulla, e gli uomini lo rispettavano.

Dormimmo negli stessi boschi in cui Polete ed io avevamo passato la notte precedente. Mi sdraiai, spada e daga ai fianchi, e desiderai con forza che la mia mente si mettesse in contatto con gli dèi. No, non erano dèi, ricordai a me stesso. Creatori, sì. Ma non dèi.

Chiusi gli occhi e tesi ogni nervo per vederli di nuovo, per parlare con loro. Completamente invano. Tutto quello che ottenni fu una serie di muscoli irrigiditi dalla tensione, che mi fecero dolere la schiena e il collo in modo orribile e mi tennero sveglio per la maggior parte della notte.

Il mattino seguente trovammo un guado nel fiume, lo attraversammo e marciammo verso il mare.

Era ben oltre mezzogiorno quando vedemmo le mura incombenti di Troia, in alto sul promontorio a picco. Le tende troiane non punteggiavano più la pianura; al loro posto, il terreno eroso tra le fortificazioni achee e le mura della città era ingombro delle macerie di una battaglia. Carri rotti e laceri rimasugli di tende erano sparsi dappertutto. Donne vestite di nero e schiave mezze nude si muovevano lentamente, con aria affranta, tra i mucchi di corpi che giacevano riversi e spogliati delle armature sotto il sole alto. Gli avvoltoi giravano pazientemente sopra di loro. Protuberanze scure di cavalli morti giacevano qua e là. Lo scontro doveva essere stato feroce, mi dissi. Ma le navi achee erano ancora allineate sulla spiaggia, gli scafi neri intatti. In qualche modo, Agamennone, Ulisse e gli altri erano sopravvissuti all’attacco furibondo di Ettore.

Polete fissò la carneficina oltre il fiume con gli occhi spalancati e pieni di lacrime. Lukka e gli altri soldati hatti sembravano valutare la situazione con sguardo professionale.

— Quella è Troia — disse Lukka indicandola.

— Quella è Troia — confermai.

Diede uno sguardo d’apprezzamento alle mura. — Non sarà facile aprire una breccia in quelle difese.

— Ma si può fare davvero?

Lui sorrise cupamente. — Se le grandi mura di Hattusas hanno potuto essere rovesciate, quella città può essere presa.

Aspettammo nell’ombra degli alberi lungo il bordo del fiume, mentre Polete e uno dei soldati hatti l’attraversavano sulla fragile barca di canne ed entravano nell’accampamento acheo. I miei ordini a Polete erano di fare rapporto a Ulisse e a nessun altro.

Passò un’ora. Due. Il sole brillava sul mare, il pomeriggio era caldo e tranquillo. Infine vidi una galea dalla testa di delfino scivolare verso di noi, con i remi che si muovevano a un ritmo tranquillo. Entrammo nell’acqua fresca e ci issammo a bordo della nave di Itaca. Lukka insistette perché io andassi per primo. Lui salì per ultimo.

Polete si sporgeva dalla murata, e tendeva le braccia magre per aiutarmi a salire. Il suo viso dalla barba ispida era cupo.

— Che notizie ci sono? — chiesi sgocciolando acqua sul ponte e sui rematori.

— Ieri si è combattuta una grande battaglia — rispose lui.

— Questo lo vedo.

Mi prese per il gomito e mi portò verso poppa, lontano dai rematori. — Ettore e i suoi fratelli hanno sfondato le difese e sono entrati nell’accampamento. Achille rifiuta ancora di combattere, ma Patrocolo ha indossato l’armatura del suo padrone e ha guidato i Mirmidoni al contrattacco. Hanno scacciato i Troiani dall’accampamento e li hanno inseguiti fin sotto alle mura di Troia.

— Devono aver pensato che fosse Achille — mormorai.

— Forse sì. Un dio ha riempito Patroclo di frenesia di battaglia. Tutti nell’accampamento pensavano che fosse troppo debole per combattere, eppure ha ricacciato i Troiani dentro le loro stesse porte e ne ha uccisi a dozzine di sua mano.

Drizzai un sopracciglio. A “dozzine”. Le storie di guerra crescevano a ogni racconto, e quella stava già diventando esagerata dopo solo ventiquattr’ore.

— Ma poi gli dèi hanno abbandonato Patroclo — continuò il cantastorie tristemente. — Ettore lo ha trafitto con la sua lancia e ha spogliato il suo cadavere dell’armatura d’oro di Achille.

Sentii il mio viso che si tendeva. “Gli dèi fanno i loro giochi” pensai. “Lasciano che Patroclo abbia il suo momento di gloria e poi ne esigono il prezzo.”

— Adesso Achille si lamenta nella sua tenda e si copre la testa di cenere. Giura una feroce vendetta contro Ettore e tutti i Troiani.

— Dunque combatterà — dissi, chiedendomi se fosse stato uno di quelli che si opponeva al Radioso a organizzare tutto, in modo che Patroclo morisse per far tornare Achille in battaglia.

— Domani mattina — mi disse Polete — Achille incontrerà Ettore in singolare duello. Si sono accordati attraverso i messaggeri. Non ci sarà combattimento sino ad allora.

Singolar tenzone tra Ettore e Achille. Ettore era di gran lunga il più forte dei due, freddo e intelligente anche in battaglia. Achille era senza dubbio più agile, anche se più piccolo, e sostenuto da quel tipo di rabbia che conduce gli uomini a gesta impossibili. Solo uno sarebbe uscito vivo dallo scontro, lo sapevo.

Anche prima che la nostra galea attraccasse, riuscii a sentire i gemiti e i lamenti funebri dell’accampamento dei Mirmidoni. Sapevo che era una questione di forma, che il principe Achille aveva ordinato alle donne di piangere. Ma c’erano voci profonde di uomini tra le grida delle donne. E un tamburo che batteva una nenia lenta e triste. Un enorme falò bruciava da quella parte dell’accampamento, mandando verso il cielo un fumo nero e fuligginoso.

— Achille piange il suo amico — disse Polete. Ma potevo vedere che quell’esibizione di dolore lo innervosiva un po’.

Eppure, nonostante i riti di lutto dei Mirmidoni, il resto dell’accampamento era eccitato per l’imminente incontro tra Achille ed Ettore. C’era quasi un’atmosfera di festa, tra gli uomini. Stavano piazzando scommesse, dando probabilità. Ridevano e ci scherzavano sopra, come se non avesse niente a che fare con il sangue e la morte. Mi accorsi che stavano cercando di esorcizzare l’incertezza e il terrore che tutti provavano. Le lamentazioni dal campo dei Mirmidoni continuarono implacabili. Ma lentamente mi venne in mente che tutti si rendevano conto che quella battaglia tra i due campioni avrebbe deciso la guerra, in un modo o nell’altro. Pensavano che, indipendentemente da chi sarebbe caduto, la guerra sarebbe finita e loro avrebbero potuto finalmente tornare a casa.

Ulisse ispezionò il contingente hatti appena sbarcò dalla sua galea. Lukka li schierò in una doppia fila, con me alla testa, mentre il rullo del tamburo funebre e i gemiti dei lamentatori stavano sospesi sopra di noi come la gelida mano della morte.

Il re di Itaca tentò d’ignorarne il suono. Mi sorrise. — Bene, Orion, hai portato con te il tuo esercito personale.

— Mio signore Ulisse — risposi — come me, questi uomini sono ansiosi di servirti. Sono soldati esperti, e possono esserti di grande aiuto.

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