Lui annuì, guardando i nuovi arrivati con attenzione. — Accetterò i loro servigi, Orion. Ma non prima di aver parlato con Agamennone. Non sarebbe bene far ingelosire, o impaurire, il Sommo Re.
— Come desideri — dissi. Conosceva la politica e la personalità dei suoi compagni Achei molto meglio di me. Ulisse non era chiamato l’astuto per niente.
Mentre ci dirigevano verso la nave che ospitava il suo alloggio, gli spiegai che non c’era nessun esercito Hatti in marcia in soccorso di Troia, riportandogli quello che Arza e Lukka mi avevano detto a proposito della morte del Sommo Re e della guerra civile che stava dilaniando l’impero.
Accarezzandosi la barba pensierosamente, Ulisse mormorò: — Pensavo che il Sommo Re stesse perdendo il suo potere quando ha permesso ad Agamennone di sistemare il suo contrasto con Priamo. In passato, gli Hatti hanno sempre protetto Troia e sono intervenuti contro chiunque abbia minacciato la regione.
Feci in modo che i nuovi soldati fossero nutriti e ottenessero tende e una sistemazione per la notte imminente. Sedevano in circolo intorno al loro fuoco, senza mescolarsi con gli Achei. Da parte loro, questi guardavano gli Hatti con non poco timore. Guardavano con invidia le loro uniformi di maglia metallica e pelle lavorata. Tra gli Achei, non ce n’erano due abbigliati nello stesso modo o con lo stesso equipaggiamento. Vedere circa quaranta uomini vestiti in modo identico era una novità per loro.
Con mia sorpresa, però, non sembravano impressionati e neanche interessati alle spade di ferro che gli Hatti portavano. Io stesso avevo la spada di Arza, e avevo visto con i miei occhi quanto una lama di ferro fosse più resistente di una di bronzo.
Mentre il sole tramontava, colorando il mare di un profondo rosso vino, Lukka mi si avvicinò. Io sedevo separato dagli uomini, e cenavo con Polete al fianco. Lukka si fermò dalla parte opposta del nostro piccolo fuoco, giocherellando nervosamente con le cinghie dell’armatura, il viso contratto in un cupo cipiglio. Pensai che venisse a lagnarsi per le lamentazioni dei Mirmidoni; non mi sentivo di biasimarlo, anche se non potevo farci nulla.
Non c’era niente su cui potesse sedersi, così mi alzai e gli fece segno di avvicinarsi.
— Mio signore Orion — cominciò — posso parlarti francamente?
— Certo. Parla pure chiaro, Lukka. Non voglio che ci siano pensieri nascosti che possano causare malintesi tra noi.
Lasciò uscire un sospiro represso di sollievo. — Grazie, signore.
— Cos’è, allora?
— Bene signore… che razza di assedio è questo? — Era quasi indignato. — L’esercito se ne sta qui seduto nell’accampamento, a mangiare e a bere, mentre la gente della città entra ed esce a raccogliere cibo e legna da ardere. Non vedo macchine per abbattere le porte o per salire sulle mura. Questo non è affatto un assedio come si deve!
Gli sorrisi. Le lamentazioni funebri per Patroclo non avevano niente a che fare con quello che lo infastidiva. Era un soldato di professione, e le stravaganze da amatore lo infastidivano.
— Lukka — dissi — questi Achei non sono molto sofisticati nell’arte della guerra. Domani vedrai due uomini che combattono l’uno contro l’altro dai carri, e questo potrebbe addirittura decidere l’esito della guerra.
Lui scosse la testa. — Non è possibile. I Troiani non lasceranno entrare volontariamente questi barbari nelle loro mura. Non mi interessa quanti campioni cadranno.
— Forse hai ragione — fui d’accordo.
— Ora guarda. — Indicò la città sul promontorio a picco, immersa nel rosso dorato del sole che tramontava. — Vedi quella sezione di muro, la parte che è più bassa del resto?
Era il lato occidentale della città, quello in cui, come il gentiluomo di corte si era lasciato sfuggire, le difese erano più deboli.
— I miei soldati possono costruire torri da assedio e portarle fino a lì, in modo che i guerrieri achei possano saltare dalle piattaforme superiori direttamente all’interno dei bastioni.
— I Troiani non cercherebbero di distruggere le torri mentre ci avviciniamo alle loro mura?
— Con che cosa? — sogghignò. — Lance? Frecce? Anche se lanciano frecce infuocate, copriremo le macchine con pelli di cavallo bagnate.
— Ma potranno concentrare tutti i loro uomini in quel singolo punto e respingervi.
Si grattò la folta barba nera. — Forse sì. Di solito cerchiamo di attaccare in due o tre punti allo stesso tempo. O di creare qualche diversivo che tenga le forze nemiche occupate da qualche altra parte.
— Questa è una buona idea — dissi. — Ne parlerò con Ulisse. Sono sorpreso che nessun Acheo ci abbia mai pensato da solo.
Lukka fece un’espressione acida. — Questi non sono veri soldati, mio signore. I re e i principotti si atteggiano a grandi guerrieri, e forse lo sono. Ma la mia sola unità potrebbe sconfiggere questi qui anche se fossero cinque volte di più.
Parlammo ancora per un po’, e poi mi lasciò per controllare che i suoi uomini fossero sistemati in modo appropriato.
Polete, che era rimasto seduto in silenzio durante la nostra conversazione, si mise in piedi. — Quell’uomo è troppo avido di vittoria — disse, in un sussurro che era quasi di rabbia. Vuole vincere da solo, senza lasciare nulla da decidere agli dèi.
— Gli uomini combattono le guerre per vincere, no?
— Gli uomini combattono per la gloria, e il bottino, e per avere storie da raccontare ai loro nipoti. Un uomo dovrebbe andare in battaglia per dimostrare il suo coraggio, per affrontare un campione e mettere alla prova il suo destino. Lui invece vuole usare trucchi e macchine per vincere — e sputò sulla sabbia per sottolineare il suo pensiero.
— Eppure tu stesso hai disprezzato i guerrieri achei e li hai chiamati folli assetati di sangue — gli ricordai.
— E lo ripeto! Ma almeno combattono con onore, come gli uomini dovrebbero combattere.
Io risi. — Nel luogo da cui vengo, vecchio, c’è un detto: “In guerra e in amore tutto è permesso”.
Per una volta, Polete non seppe cosa rispondere. Borbottò tra sé mentre lo lasciavo vicino al fuoco, per andare in cerca di Ulisse.
Nell’umido alloggio di tende del re di Itaca, parlai della possibilità di costruire le torri d’assedio.
— Possono essere messe su ruote e tirate sino alle mura? — domandò Ulisse, per il quale l’idea era nuova.
— Sì, mio signore.
— E questi Hatti sanno costruire simili macchine?
— Sì.
Nella luce tremolante dell’unica lampada di rame sul tavolo da lavoro, potei vedere gli occhi di Ulisse brillare a quella possibilità. Con aria assorta accarezzò il collo del cane ai suoi piedi mentre considerava i possibili risultati.
— Vieni — disse alla fine. — Questo è il momento di parlarne ad Agamennone!
Il Sommo Re sembrava mezzo addormentato quando fummo introdotti alla sua presenza. Si era assopito su una sedia da campo, con una coppa di vino incrostata di gemme nella mano destra. Apparentemente la sua spalla si era rimessa abbastanza da permettergli di piegare il gomito. Non c’era nessun altro nella baracca, tranne due schiave con gli occhi scuri, silenziose nelle camicie sottili che lasciavano nude le braccia e le gambe.
Ulisse sedette di fronte al Sommo Re. Io mi accovacciai sul pavimento al suo fianco. Ci fu offerto del vino. Era denso di miele speziato e di farina d’orzo.
— Una torre che si muove? — borbottò Agamennone dopo che Ulisse glielo ebbe spiegato due volte. — Impossibile! Come può una torre di pietra…
— Sarebbe fatta di legno, figlio di Atreo. E coperta di pelli per proteggerla.
Agamennone abbassò lo sguardo annebbiato su di me e lasciò affondare il mento nel suo largo torace. Le lampade gettavano lunghe ombre attraverso la stanza, dando al suo viso dalle pesanti sopracciglia un aspetto sinistro, quasi minaccioso.
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