Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Polete ansimava forte, ma faceva del suo meglio per tenermi dietro. Mentre ci spingevamo tra le ombre più scure, una civetta gridò, come per sfidarci.

— Atena ci dà il benvenuto — disse Polete ansando.

— Cosa?

Mi afferrò la spalla. Io mi fermai e mi volsi. Lui era piegato in avanti, le mani sulle ginocchia nodose, respirava affannosamente e cercava di riprendere fiato.

— Non abbiamo bisogno… di dèmoni della foresta — ansimò. — Hai… il tuo dèmone personale… dentro di te.

Sentii un rimorso di coscienza. — Mi dispiace — dissi. — Non mi ero accorto che stavamo andando troppo in fretta per te.

— Possiamo… riposarci qui?

— Sì.

Si tolse lo zaino dalle spalle e crollò sul terreno muschioso. Io respirai una profonda boccata di aria pulita di montagna, frizzante di una traccia di pino.

— Cos’è che hai detto a proposito di Atena? — chiesi, inginocchiandomi vicino a lui.

Polete mosse vagamente una mano. — La civetta… è il simbolo di Atena. Il suo grido significa che lei ci dà il benvenuto al sicuro di questi boschi. Siamo sotto la sua protezione.

Sentii la mia mascella stringersi. — No, vecchio. Non può proteggere nessuno, nemmeno se stessa. Atena è morta.

Anche nel buio riuscii a vedere i suoi occhi spalancarsi. — Cosa stai dicendo? Questo è sacrilegio!

Io mi strinsi nelle spalle e mi accovacciai sul terreno vicino a lui.

— Orion — disse Polete con convinzione sollevandosi su un gomito, — gli dèi non possono morire. Sono immortali!

— Atena è morta — ripetei, sentendo un dolore sordo alla bocca dello stomaco.

— Ma tu sei al suo servizio!

— Io servo la sua memoria. E vivo per vendicarmi del suo assassino.

Lui scosse la testa incredulo. — È impossibile, Orion. Gli dèi e le dee non possono morire. Non finché anche un solo mortale si ricorda di loro. Finché tu onori Atena e la servi, lei non è morta.

— Forse è così — dissi, per calmare lui e la sua paura. — Forse hai ragione.

Ci sdraiammo per dormire qualche ora, avvolti nei nostri mantelli. Io avevo paura di chiudere gli occhi, così rimasi ad ascoltare i rumori tenui della foresta, il dolce fruscio degli alberi nella brezza fresca e scura, il ronzio degli insetti, il richiamo occasionale di una civetta.

“Lei è morta” mi dissi. “È morta nelle mie braccia. E io ucciderò il Radioso, un giorno.”

La luna mi guardava furtivamente attraverso i rami ondeggianti degli alberi. “Artemide, sorella di Apollo” pensai. “Difenderai tuo fratello contro di me? O eri tu che discutevi contro di lui? Gli altri dèi mi combatteranno o mi saranno alleati nella vendetta contro il Radioso?”

Dovevo essermi addormentato, perché sognai di vederla di nuovo: Atena, in piedi, alta e splendente d’argento luccicante, i lunghi capelli scuri lucidi come l’ebano, i begli occhi grigi che mi guardavano cupamente.

— Non sei solo, Orion — mi disse. — Hai molti alleati intorno a te. Devi solo trovarli. E condurli alla tua meta.

Io cercai di raggiungerla, ma mi ritrovai seduto sul terreno muschioso della foresta, la nuova luce gialla del sole che filtrava tra gli alberi. Gli uccelli stavano innalzando un canto di benvenuto al nuovo giorno.

Polete si stiracchiò prima che decidessi di svegliarlo. Mangiammo una colazione fredda bagnata da vino tiepido, poi riprendemmo la marcia.

Ci dirigemmo verso nord, verso la strada che partiva dall’entroterra di Troia. Superammo due file di colline boscose, e quando raggiungemmo la cima della terza vedemmo distendersi sotto di noi un’ampia vallata, disseminata di campi coltivati. Un fiume serpeggiava dolcemente, e lungo le sue rive, l’uno vicino all’altro, sorgevano minuscoli villaggi.

Una brutta colonna di fumo nero si alzò da uno di quelli.

L’indicai: — L’esercito Hatti è là.

Scendemmo in fretta dal pendio boscoso e giungemmo nei campi di grano alto sino al petto, camminando a fatica tra le messi dorate come naufraghi che vacillano nella salvezza di una spiaggia sconosciuta.

— Perché un alleato troiano dovrebbe bruciare un villaggio troiano? — chiese Polete.

Io non avevo risposta. La mia attenzione era fissa su quella colonna di fumo e sul pietoso mucchio di baracche brucianti che lo producevano. Riuscivo a vedere i carri e i cavalli, adesso, e uomini in armature che luccicavano sotto il sole del mattino.

Ci facemmo strada in mezzo al grano che maturava e arrivammo sul bordo del campo. Polete mi tirò il mantello.

— Forse sarebbe meglio se stessimo giù finché non scopriamo cosa sta succedendo qui.

— Non c’è tempo — dissi. — Ettore starà attaccando la spiaggia ormai. Se queste sono truppe hatti, dobbiamo scoprire che intenzioni hanno.

Continuai ad avanzare e dopo una dozzina di passi uscii dalla zona coltivata. Potevo vedere chiaramente i soldati, adesso. Erano più alti e più belli degli Achei. E, presi uno per uno, meglio armati ed equipaggiati. Ciascuno portava una tunica di maglia metallica e un elmo di lucido ferro nero. Le loro spade erano lunghe, con le lame di ferro, non di bronzo. I loro scudi erano piccoli e quadrati, legati sulle spalle, dal momento che non c’era nessun combattimento in atto.

Ne vidi una mezza dozzina che stava radunando una famigliola di contadini fuori dalla loro capanna: un uomo, sua moglie e due giovani figlie. I quattro sembravano terrorizzati, come conigli presi in trappola. Caddero in ginocchio e alzarono le mani in un gesto di supplica. Uno dei soldati gettò una torcia sul tetto di paglia della capanna, mentre gli altri si stringevano intorno ai contadini supplicanti e piangenti, con le spade sguainate e sorrisi minacciosi.

— Fermatevi! — gridai, dirigendomi velocemente verso di loro. Potevo sentire dietro di me il frusciare di Polete che se ne stava nascosto tra gli steli di grano.

I soldati si voltarono.

— Chi diavolo sei? — gridò il loro comandante.

— Un messaggero del Sommo Re Agamennone — risposi, incamminandomi verso di lui. Era leggermente più basso di me, ben costruito, con le cicatrici di molte battaglie. Il suo viso era duro e fiero come un falcone da caccia, con gli occhi che brillavano sospettosi; il naso era curvo come il becco di un falco. Aveva la spada in mano. Io tenni la mia nel fodero.

— E chi è, in nome dei Nove Signori della Terra, il Sommo Re Aga… qualunque cosa sia?

Io stesi il braccio sinistro. — Porto un messaggio del vostro Sommo Re, un messaggio di pace e di amicizia che ha mandato ad Agamennone.

Il soldato sogghignò acidamente. — Pace e amicizia, eh? — Sputò ai miei piedi. — Questo è quanto valgono pace e amicizia. — Poi disse ai cinque uomini dietro di lui: — Tagliate la gola all’uomo e prendete le donne.

Mi occuperò di questo qui di persona.

Il mio corpo passò istantaneamente all’ipervelocità, ogni senso così acutizzato che potevo vedere le vene dell’Hatti pulsargli sul collo, proprio dietro l’orecchio, e sentire il sibilo della sua lama di ferro che volteggiava nell’aria. Dietro di lui, vidi uno degli altri soldati afferrare per i capelli il contadino inginocchiato e tirargli indietro la testa per scoprirgli la gola. La moglie e le figlie trattenevano il respiro.

Io evitai facilmente la lama volteggiante e mi lanciai contro il soldato che stava per massacrare il contadino. Il mio balzo li fece cadere entrambi per terra. Rotolai per rimettermi in piedi e colpii il soldato alla testa con un calcio. Cadde sulla schiena, svenuto.

Tutto accadde così rapidamente che le mie reazioni sembravano automatiche, al di fuori di qualsiasi consapevole controllo. Disarmai i due soldati più vicini prima che i loro compagni potessero muoversi. Quando lo fecero, sapevo già le loro intenzioni dai movimenti dei loro occhi, dalla contrazione dei muscoli dei bicipiti o delle cosce. Fu solo questione di piantare un pugno in un plesso solare e un altro alla mascella del soldato successivo, fratturando l’osso.

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