Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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— Niente di buono — risposi. — Ci sarà battaglia domani.

Le spalle magre di Polete crollarono sotto la tunica consumata. — Pazzi. Maledetti pazzi.

Io sapevo che le cose erano diverse, ma non lo rivelai. Ci sarebbe stata battaglia, il giorno dopo, perché io non avrei fatto sapere alle due parti che ognuna di esse era pronta alla pace.

Andai direttamente da Ulisse, con Polete che mi saltellava vicino, le gambe ossute che facevano doppio lavoro per adeguarsi al mio passo. Soldati e nobili mi fissarono, leggendo nel mio viso cupo le notizie che portavo da Troia. Anche le donne mi guardarono, poi volsero il capo sapendo che il giorno successivo avrebbe portato sangue, massacro e terrore. Molte di loro erano native di quella terra, e speravano di essere liberate dalla schiavitù dai soldati troiani. Ma sapevano, pensai, che nella frenesia e nella sete di sangue della battaglia le loro possibilità di essere violentate e uccise erano molto più di quelle di essere riscattate e restituite alle loro famiglie.

L’alloggio di Ulisse era sul ponte della sua nave. Mi ricevette da solo, congedando aiutanti e servi per ascoltare il mio rapporto. Era nudo e bagnato dopo la sua nuotata mattutina, e si stava asciugando con forza con un ruvido asciugamano. Seduto su uno sgabello a tre zampe, si appoggiò con la schiena all’unico albero della nave. Le vele ammuffite che erano servite da tenda quando pioveva erano di nuovo piegate adesso che il sole splendeva, ma il viso barbuto del re di Itaca era scuro e simile a un presagio di sventura come una nuvola di tempesta, mentre gli dicevo che Priamo e i suoi figli avevano rifiutato i termini di pace degli Achei.

— Non hanno fatto nessuna controfferta? — chiese quando ebbi terminato il mio rapporto.

Senza esitare, mentii. — Nessuna. Alessandro ha detto che non consegnerà Elena, a nessuna condizione.

— Nient’altro?

— Lui e il principe Ettore mi hanno detto che un esercito Hatti sta marciando in loro aiuto.

Gli occhi di Ulisse si spalancarono. — Cosa? A che distanza sono da qui?

— A qualche giorno di marcia, a quanto ha detto Alessandro.

Si tirò la barba, con una reale costernazione sul viso. — Questo non può essere — mormorò. — Non può essere!

Io aspettai in silenzio, e guardai le barche allineate sulla spiaggia. Ognuna aveva l’albero rizzato, come se l’equipaggio si stesse preparando a salpare. Gli alberi non erano armati, il giorno prima.

Infine Ulisse saltò in piedi. — Vieni con me — disse con un tono di urgenza. — Agamennone deve saperlo.

12

— Gli Hatti stanno venendo qui? Per aiutare Priamo? — gracchiò Agamennone con la sua alta voce stridente. — Impossibile! Non può essere vero!

Il Sommo Re sembrava sgomento. Sedeva a capo del Consiglio, la spalla sinistra fasciata con strisce di stoffa macchiate di sangue e di un qualche cataplasma oleoso.

Era grosso di spalle e di corpo, costruito come una tozza torretta, tondo e massiccio dal collo ai fianchi. Indossava una cotta di maglia dorata sulla tunica, e sopra una corazza di pelle splendente, con fibre e ornamenti d’argento. Una spada ingioiellata gli pendeva dal fianco. Persino le gambe erano chiuse in schinieri di bronzo elaboratamente decorato, con fibbie d’argento. I sandali avevano nappe d’oro sui cinturini.

Nel complesso, Agamennone sembrava vestito più per una battaglia che non per un consiglio con i suoi luogotenenti e i re e i principi delle varie tribù achee.

Ma, conoscendo gli Achei e la loro tendenza alla discussione, forse sperava di intimorirli con la sua tenuta pomposa. O forse pensava sul serio di andare in battaglia.

Trentadue uomini sedevano in circolo intorno al piccolo focolare della baracca di Agamennone, i comandanti dei contingenti achei. Ogni regno alleato di Agamennone e di suo fratello Menelao era lì, sebbene i Mirmidoni fossero rappresentati da Patroclo anziché da Achille. Io sedevo dietro ad Ulisse, che si trovava due seggi più giù sulla destra del Sommo Re, così ebbi l’opportunità di studiare Agamennone da vicino.

C’era molta poca nobiltà nei lineamenti del Sommo Re. Come il suo corpo, il viso era largo e pesante, con un grosso naso tronco, la fronte bassa e gli occhi incassati che sembravano guardare il mondo con sospetto e risentimento. I capelli e la barba stavano appena cominciando a diventare grigi, ma erano ben pettinati e brillavano di un olio così profumato che mi faceva pizzicare le narici persino da dove ero seduto.

Teneva uno scettro di bronzo nella mano sinistra; quella destra era abbandonata mollemente in grembo. Una delle regole di equilibrio e ordine nelle riunioni del Consiglio stabiliva, a quanto pareva, che solo chi teneva lo scettro fosse autorizzato a parlare.

— Ho la promessa giurata dello stesso Hattusilis, Sommo Re dell’Hatti, che non interferirà nella nostra guerra contro Troia — disse Agamennone con tono petulante. — Scritta! — aggiunse.

— Ho visto l’accordo — confermò suo fratello Menelao.

Alcuni dei re e dei principi annuirono, ma il grande, rude Aiace, che sedeva a metà del circolo, parlò.

— Molti di noi non hanno mai visto il documento mandato dal Sommo Re Hatti.

Agamennone sospirò, quasi in modo femmineo, e si voltò verso un servo in piedi dietro la sua sedia. Immediatamente, questi andò in un angolo della stanza, dove un tavolo e varie casse erano stati raggruppati insieme a formare qualcosa di simile a un ufficio.

La baracca del Sommo Re era più grande di quella di Achille, ma non altrettanto lussuosa. Le pareti di tronchi erano nude, anche se il letto era coperto di ricchi drappi. Durante tutta la sfuriata, Agamennone non usò mai il palco; restò seduto allo stesso livello di tutti gli altri. Il bottino di dozzine di città era sparso tutt’intorno: armature, spade coperte di pietre preziose, lunghe lance con punte di bronzo luccicante, tripodi di ferro e di bronzo, casse che dovevano aver contenuto oro e gioielli. Il Sommo Re aveva fatto uscire le donne e gli schiavi. Non c’era nessuno, tranne il Consiglio, gli scriba e qualche servitore.

I servi portarono una tavoletta di argilla cotta coperta di iscrizioni cuneiformi. Agamennone la fece passare lungo il cerchio dei consiglieri. Ognuno la controllò attentamente, anche se mi sembrò che quasi nessuno di loro riuscisse a leggerla. Come a confermare il mio sospetto, una volta che fu tornata nelle sue mani Agamennone la fece leggere a voce alta da uno dei servi.

Il documento era un pezzo di magistrale fraseologia diplomatica. Salutava Agamennone come Sommo Re collega, e io vidi il suo petto gonfiarsi d’orgoglio al suono di quelle parole. Il Sommo Re dell’Hatti, sovrano di tutte le terre dalla sponda dell’Egeo sino alle antiche mura di Gerico (per sua stessa modesta ammissione), riconosceva la legittimità delle rimostranze achee contro Troia e prometteva di non interferire nella loro soluzione.

Naturalmente, la formulazione era molto più indiretta di così, ma il significato sembrava abbastanza chiaro. Persino un Troiano avrebbe dovuto ammettere che Hattusilis aveva promesso ad Agamennone che non avrebbe aiutato Troia.

— Eppure i Troiani sostengono che l’esercito Hatti è a pochi giorni di marcia, e viene in loro aiuto — disse Ulisse.

— Perdonami, Re di Itaca — disse il vecchio Nestore che sedeva tra Ulisse e Agamennone — ma non hai lo scettro, e quindi stai parlando senza averne il diritto.

Ulisse sorrise all’uomo dalla bianca barba. — Anche tu, Re di Pilo — disse gentilmente.

— Cosa stanno dicendo? — gridò uno dei principi dall’altra parte del cerchio. — Non riesco a sentirli!

Agamennone porse lo scettro a Ulisse, che si alzò e ripeté il suo discorso con voce chiara.

— Come facciamo a sapere che è vero? — si lasciò scappare Aiace.

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