— Re mio signore — disse Ettore, vestito di una semplice tunica — questo emissario di Agamennone porta un’altra offerta di pace.
— Sentiamola — sussurrò Priamo, debole come un sospiro.
Tutti mi guardarono.
— Io fissai la nobiltà riunita e vidi un desiderio, una smania, una chiara speranza che io fossi il portatore di un’offerta che avrebbe messo fine alla guerra. Soprattutto tra le donne potevo percepire il desiderio di pace, anche se mi rendevo conto che gli uomini si controllano di più.
Mi inchinai profondamente davanti al re, poi feci un cenno con la testa prima ad Ettore, poi ad Alessandro. Colsi lo sguardo di Elena mentre lo facevo, e mi sembrò che mi sorridesse leggermente.
— O Grande Re — cominciai — ti porto i saluti del Sommo Re Agamennone, comandante dell’esercito acheo.
Priamo annuì e agitò le dita di una mano, come per incitarmi a tralasciare i preliminari e ad arrivare direttamente alla questione.
Lo feci. Non gli riportai l’offerta di Ulisse di andarsene con Elena e nient’altro, bensì la mia elaborazione: Elena, il suo tesoro e un’indennità che Agamennone avrebbe distribuito al suo esercito.
Potei sentire l’atmosfera della sala cambiare. La bramosa aspettativa morì. Una cupa reazione di malinconia scese su tutti loro.
— Ma questo non è niente di più di quello che Agamennone ha offerto in passato — ansimò Priamo.
— E che noi abbiamo fermamente rifiutato — aggiunse Ettore.
Alessandro rise. — Se abbiamo rifiutato condizioni così offensive quando gli Achei premevano alle nostre porte, perché dovremmo anche solo considerarle adesso che teniamo bloccati i barbari sulla spiaggia? Tra un paio di giorni bruceremo le loro navi e li macelleremo da quelle bestie che sono.
— Io sono un nuovo arrivato in questa guerra — dissi. — Non so niente dei vostri contrasti e dei vostri diritti. Io sono stato incaricato di offrirvi i termini per la pace, e l’ho fatto. Sta a voi considerarli e dare una risposta.
— Non consegnerò mai mia moglie! — disse bruscamente Alessandro. — Mai!
Elena gli sorrise e lui sollevò il braccio per prendere la mano di lei nella sua.
— Un nuovo arrivato, dici? — chiese Priamo, con una curiosità sufficiente a illuminargli gli occhi. — Eppure dichiari di essere della Casa di Itaca. Quando hai fatto passare la tua testa sotto l’architrave della nostra soglia, ho pensato che potessi essere quello che chiamano Grande Aiace.
Risposi: — Ulisse mi ha preso nella sua casa, o re mio signore. Sono arrivato su questi lidi solo qualche giorno fa.
— E da solo mi ha impedito di prendere d’assalto il campo acheo — disse Ettore in tono dispiaciuto. — È un peccato che Ulisse ti abbia adottato. Non mi dispiacerebbe avere un uomo tanto impavido dalla mia parte.
Sorpreso della sua offerta, e chiedendomi cosa potesse implicare, risposi appena: — Ho paura che sarebbe impossibile, mio signore.
— Sì — fu d’accordo Ettore. — Peccato, però.
Priamo si mosse sul trono, tossì dolorosamente, poi disse: — Ti ringraziamo per il messaggio che porti, Orion della Casa di Itaca. Ora dobbiamo considerarlo e decidere una risposta.
M’indirizzò un debole gesto di congedo. Io mi inchinai di nuovo e tornai nell’anticamera. Le guardie chiusero la pesante porta dietro di me.
Ero solo nella piccola sala; il gentiluomo di corte che prima mi aveva fatto da guida era scomparso. Mi avvicinai alla finestra e guardai il grazioso giardino, così pieno di pace, così luminoso di fiori e di api ronzanti intente al loro lavoro. Là non c’era nessuna traccia di guerra: semplicemente il ciclo senza fine di nascita, crescita, morte e rinascita.
Pensai alle parole che il Radioso mi aveva detto. Quante volte ero morto e rinato? A quale scopo? Lui voleva che Troia vincesse quella guerra, o almeno sopravvivesse all’assedio acheo. Perciò il mio desiderio era lo stesso di Agamennone: schiacciare Troia, bruciarla sino alle fondamenta, massacrare il suo popolo e distruggerla per sempre.
Distruggere quel giardino? Bruciare quel palazzo? Massacrare Ettore e il vecchio Priamo e tutti gli altri?
Strinsi i pugni e gli occhi, forte. Sì! dissi a me stesso. Proprio come il Radioso massacrerebbe Ulisse e il vecchio Polete. Proprio come aveva fatto bruciare il mio amore sino alla morte.
— Orion di Itaca.
Diedi le spalle alla finestra. Sulla soglia c’era un solo soldato, con la testa scoperta, con una corazza di pelle ben oliata anziché l’armatura, e una corta spada al fianco.
— Seguimi, prego.
Lo seguii per un lungo corridoio sino a una rampa di scale, poi attraverso varie stanze senza nessuno, riccamente ammobiliate e decorate con splendidi arazzi. Avrebbero bruciato bene, mi trovai a pensare. Salimmo un’altra rampa e infine venni introdotto in una confortevole saletta, con finestre senza tende e una porta aperta che dava su una terrazza e sul mare lontano. Graziosi affreschi decoravano le pareti, scene di uomini tranquilli e di donne in un mondo pastello di fiori e animali gentili.
Il soldato chiuse la porta e mi lasciò solo. Ma non per molto. Dalla porta dalla parte opposta della stanza, appena qualche attimo dopo, entrò la bella Elena.
Toglieva il respiro, non c’erano dubbi. Portava una gonna a balze di brillanti colori arcobaleno con nappe d’oro che tintinnavano mentre camminava verso di me. Il suo corsetto, adesso, era blu come il cielo egeo, e la camicia bianca così trasparente che potevo vedere i cerchi scuri delle areole intorno ai capezzoli. Portava una tripla collana d’oro e altro oro a entrambi i polsi e ai lobi delle orecchie. Anelli di pietre preziose le scintillavano alle dita.
Era minuscola, quasi delicata, nonostante la figura a clessidra. La pelle era simile a panna, perfetta e molto più chiara di quella delle donne che avevo visto nell’accampamento acheo. I suoi occhi erano di un blu profondo come il suo mare, le labbra morbide e piene, i capelli del colore del miele dorato, con i riccioli che le ricadevano molto più giù delle belle spalle. Un boccolo testardo le scendeva sulla fronte. Aveva un profumo di fiori: leggero, pulito, allettante.
Elena mi sorrise e mi indicò una sedia. Lei scelse un divano coperto di cuscini, dando la schiena alla finestra aperta. Io mi misi a sedere e aspettai che fosse lei a parlare. In verità, il solo guardarla contro lo sfondo del mare blu era una festa che sembrava troppo bella per descriverla a parole.
— Dici di essere uno straniero in questa terra — la sua voce era lenta, melodiosa. Capivo come Alessandro, o qualsiasi altro uomo, avrebbe osato qualunque cosa per averla. E tenerla.
Io annuii e scoprii di dover deglutire prima di riuscire a parlare. — Mia signora, sono arrivato su una nave solo qualche giorno fa. Prima di allora, tutto quello che sapevo di Troia erano… storie raccontate da viandanti.
— Sei un marinaio, allora?
— Non proprio — dissi. — Sono un… viaggiatore, un vagabondo.
Mi guardò con un’ombra di sospetto in quei limpidi occhi blu. — Non un guerriero?
— Ho fatto il guerriero, ogni tanto, ma questa non è la mia professione.
— Però può essere il tuo destino.
Non trovai una risposta da darle.
Elena disse: — Servi la dea Atena. — Non era una domanda. Aveva eccellenti fonti di informazione, a quanto pareva.
Annuendo, risposi: — Questo è vero.
Si morse il labbro inferiore. — Atena mi detesta. È nemica di Troia.
— Eppure la sua statua è venerata…
— Non si può fare a meno di onorare una divinità così potente, Orion. Non importa quanto Atena mi odi, il popolo di questa città deve continuare a placarla meglio che può. Disastri sicuri si abbatteranno su Troia se non lo farà.
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