All’interno, una larga strada di terra battuta passava in mezzo a costruzioni non più alte di due piani. La fredda, pallida luce della luna faceva sembrare più profonde e più scure le ombre delle loro facciate con le imposte chiuse. Non c’era assolutamente nessuno che si muovesse su quella strada, né nei vicoli scuri che se ne staccavano, nemmeno un gatto.
Polidama non era un tipo loquace. In un silenzio praticamente totale, mi condusse a una costruzione dal tetto basso e in una stanza minuscola, illuminata dall’instabile fiamma blu-gialla di una piccola lampada a olio di rame appoggiata su uno sgabello di legno a tre zampe. C’era un letto singolo e un cassettone di legno di cedro, nient’altro. Una coperta di lana grezza ricopriva il letto.
— Sarai introdotto alla presenza del re domani mattina — disse Polidama, e quello fu il suo più lungo discorso della serata. Senza dire nient’altro mi lasciò, chiudendo piano la porta di legno dietro di sé.
E sprangandola.
Non avendo niente di meglio da fare mi spogliai, tirai indietro la ruvida coperta e mi sdraiai sul letto. Era molleggiato; un sottile materasso di piume sopra un intreccio di funi.
Mentre cominciavo ad assopirmi, mi resi conto improvvisamente che il Radioso avrebbe potuto invadere di nuovo i miei sogni. Per un attimo tentai di combattere il sonno, ma il corpo ebbe la meglio sulla volontà e i miei occhi si chiusero inevitabilmente. Il mio ultimo pensiero da sveglio fu di chiedermi come potessi mettermi in contatto con uno degli altri Creatori, con lo Zeus che considerava con tanta perplessità i piani del Radioso, con la donna che gli si opponeva apertamente.
Ma se sognai, non ricordai poi nulla quando fui svegliato dal chiavistello della porta che si apriva scattando. Mi misi a sedere, immediatamente all’erta, e allungai la mano per prendere il coltello che mi ero tolto ma avevo lasciato sul letto tra il mio corpo e il muro.
Una donna entrò di spalle nella stanza, portando un catino e una brocca d’acqua. Quando si voltò e mi vide seduto lì, nudo, sorrise, fece un piccolo inchino e mise catino e brocca sul cassettone di cedro. Poi uscì indietreggiando e chiuse la porta. Fuori, sentii numerose risatine femminili.
Un troiano entrò nella mia stanza dopo un unico colpo secco alla porta. Sembrava più un gentiluomo di corte che un guerriero. Era piuttosto alto ma aveva le spalle morbide, lo sguardo mite, con le pupille protuberanti. La sua barba era già piuttosto grigia, la testa quasi calva, la tunica riccamente ricamata e coperta di una lunga veste senza maniche verde scuro.
— Ti condurrò nella sala delle udienze del re Priamo appena avrai avuto il pasto del mattino.
La diplomazia si muoveva con passi cortesi; io ne fui felice. Il gentiluomo mi condusse agli orinatoi sul retro della casa, poi di nuovo nella mia stanza per una rapida lavata. La colazione consisteva in frutta, formaggio e pane non lievitato, bagnato nel latte di capra. Mangiammo nella grande cucina di fronte alla casa. Metà della stanza era occupata da un focolare rotondo, sotto un’apertura del tetto. Era freddo e vuoto, a parte un po’ di ceneri scure sparse qua e là, che sembravano lì da molto tempo.
Attraverso la finestra della cucina vidi diverse persone intente ai loro compiti mattutini. Alcune donne badavano a noi, gettandomi occhiate curiose. Il gentiluomo le ignorava, tranne che per ordinare altri fichi e miele.
Infine ci avviammo per quella che sembrava la strada principale, che saliva leggermente verso un edificio dalle colonne elegantemente scanalate e un tetto digradante a scalini. Il palazzo di Priamo, immaginai. O il tempio principale della città. Forse entrambe le cose. Il sole non era ancora alto, ma l’aria era molto più tiepida in quella strada che non fuori sulla pianura ventosa.
— È lì che stiamo andando? — indicai.
Il gentiluomo mosse di scatto la testa. — Sì, naturalmente. Il palazzo del re. Un palazzo più splendido non esiste in nessun’altra parte del mondo; tranne forse in Egitto, naturalmente.
Io ero sorpreso da quanto in realtà Troia fosse piccola. E affollata. Case e negozi erano addossati le une agli altri. Le strade non erano lastricate, e si inclinavano a “V” in modo che l’acqua scorresse al centro quando pioveva. Le ruote dei carri vi avevano inciso profondi solchi. Ricevetti inchini e sorrisi mentre ci dirigevamo verso il palazzo.
— I principi reali, come Ettore e Alessandro e i loro fratelli, vivono nel palazzo con il re. — Il mio cortigiano si stava trasformando in una guida turistica. Indicò una strada più in basso. — Vicino alle porte Scee ci sono le case dei principi minori e della nobiltà. Sono belle case, nondimeno, molto più belle di quante potrai trovarne a Micene o persino a Mileto.
Stavamo passando attraverso la zona del mercato. Bancarelle coperte di tende mettevano in vendita piccole, preziose derrate: pane, vegetali secchi, un agnello pelle e ossa che belava lamentosamente.
Eppure i mercanti, sia uomini sia donne, sembravano sorridenti e felici.
— Hai portato un giorno di pace — mi disse il gentiluomo. — I contadini possono portare i loro prodotti al mercato, stamattina. I taglialegna possono uscire nel bosco e tagliare la legna da ardere prima che scenda la notte. La gente è grata di questo.
— L’assedio vi ha danneggiato — mormorai.
— Sino a un certo punto, sicuro. Ma non siamo affamati. Nel tesoro reale c’è grano sufficiente per un anno! L’acqua arriva da una sorgente protetta da Apollo in persona. E quando c’è veramente bisogno di combustibile o di bestiame o di qualunque altra cosa, le nostre truppe scortano la gente necessaria in incursioni nell’entroterra. Sollevò di un paio di centimetri il mento coperto di barba grigia. — Non moriremo di fame.
Io non dissi nulla.
Lui considerò il mio silenzio una manifestazione di dubbio. — Guarda quelle mura! Gli Achei non saranno mai capaci di scalarle!
Io seguii il suo sguardo ammirato giù per un vicolo contorto e vidi le mura turrite che si innalzavano al di sopra delle case. Sembravano davvero alte, solide e forti.
— Apollo e Poseidone hanno aiutato il re Laomedonte a costruire quelle mura, che hanno resistito ad ogni assalto di cui sono state oggetto. Certo, Ercole una volta ha saccheggiato la città, ma ha avuto un aiuto divino e non ha neppure tentato di aprire una breccia lì. Ha attaccato sul lato occidentale, dove c’è il muro più vecchio. Ma questo è stato molto tempo fa.
Io rizzai le orecchie. Il muro occidentale era più debole? Ma, come accorgendosi di aver detto troppo, la mia guida sprofondò nel silenzio, il viso rosso. Fece il resto della strada verso il palazzo senza dire nient’altro.
Le guardie tennero le loro lance rigidamente dritte mentre oltrepassavamo le colonne dipinte di cremisi sulla facciata del palazzo ed entravamo nel suo fresco interno. Non vidi marmo, il che in qualche modo mi sorprese. Le colonne e le spesse mura del palazzo erano fatte di una pietra grigiastra simile al granito, lucidata sino ad assumere una luminosa levigatezza. Dentro, i pavimenti erano coperti di mattonelle lucide e colorate. Le pareti erano intonacate e dipinte in rossi e gialli vivaci, con bordi blu o verdi che correvano lungo i soffitti.
Faceva freddo. Nonostante il calore del sole, quei grossi muri di pietra isolavano il palazzo così bene che quasi immaginai di poter vedere il mio respiro congelarsi nell’aria ombrosa.
La sala al di là dell’ingresso era stupendamente decorata di paesaggi dipinti sulle pareti intonacate. Scene di belle dame e di uomini avvenenti su campi verdi e rigogliosi con alberi fronzuti. Nessuna battaglia, nessuna scena di caccia, nessuna ostentazione di potere imperiale o di sete di sangue.
C’erano delle statue lungo il corridoio, la maggior parte a grandezza reale, alcune più piccole, altre così grandi che le loro teste o le braccia allargate raschiavano contro le travi lucide dell’alto soffitto.
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