Allora vibrarono il colpo di grazia: i lancieri caricarono i carnosauri feriti sui loro piccoli cavalli muscolosi, una dozzina di San Giorgio dalla pelle scura che infilzarono altrettanti draghi in carne e ossa.
Mi diressi verso il dinosauro che avevo abbattuto per riprendere la spada, seguito da Subotai, che smontò da cavallo per esaminare i corpi degli shaydiani uccisi.
— Sono molto simili ai folletti di cui parlano i popoli della montagna — disse.
Abbassai a mia volta lo sguardo sul cadavere di uno dei cloni di Set. I suoi occhi da rettile erano ancora aperti, con sguardo fisso e vitreo. Le sue squame rossastre erano sporche di sangue, e tre frecce fuoriuscivano dalle sue carni. Le sue zampe erano ormai immobilizzate per sempre, ma ancora avevano un aspetto minaccioso.
— Non sono umani — dissi — ma sono mortali. Muoiono proprio come noi, e anche il loro sangue è rosso.
Subotai rimase a fissarmi per un momento, quindi si diresse verso il luogo in cui i suoi uomini stavano disponendo uno di fianco all’altro i corpi dei mongoli caduti.
— Cinque morti — borbottò.
— Quanti draghi possiede il nemico?
— Centinaia, a dir poco — risposi, osservando i guerrieri mongoli raccogliere rami dai cespugli intorno alla collinetta, per improvvisare una pira funeraria.
Rammentando il pozzo nucleare di cui Set disponeva per compiere i propri balzi attraverso lo spaziotempo, aggiunsi: — E probabilmente è in grado di reclutarne altri per rimpiazzare le proprie perdite.
Subotai annuì. — E la sua città è fortificata?
— Sì. Le mura sono più alte di cinque uomini uno sulle spalle dell’altro.
— Questa schermaglia — disse Subotai — era un tentativo da parte del comandante nemico di determinare quanti siamo e come combattiamo. Quando nessuno dei suoi esploratori farà ritorno, avrà la risposta alla seconda domanda, ma non alla prima.
Chinai il capo. Possedeva grandi qualità tattiche, ma non poteva sapere che Set aveva assistito a quella battaglia attraverso gli occhi dei suoi stessi cloni.
— Devi tornare indietro e portare qui il resto del mio esercito — decise Subotai. — E in fretta, Orion, prima che il nemico possa capire che siamo soltanto in mille… meno cinque.
— Lo farò questa notte stessa, mio nobile Subotai.
— Bene — borbottò.
Stavo per allontanarmi quando il generale mongolo si alzò in piedi e mi strinse una mano sulla spalla. — Ti ho visto caricare quella bestia, quando il mio cavallo era in difficoltà. Mi hai protetto proprio mentre ero più vulnerabile. Sei coraggioso, Orion, amico mio.
— Sembrava la cosa più saggia da farsi, mio signore.
Subotai sorrise. Quel possente Mongolo dalla barba grigia, i capelli arruffati, il volto madido per il sudore della battaglia, quell’uomo che aveva conquistato città e ucciso uomini a migliaia, mi sorrise con aria paterna.
— Tanta saggezza e coraggio meritano una ricompensa. Cosa vorresti da me, uomo dell’Occidente?
— Mi hai già ricompensato, mio signore.
I suoi occhi scuri si dilatarono. — Davvero? E come?
— Mi hai chiamato amico. È una ricompensa più che generosa.
Subotai accennò un sorriso di compiacimento, quindi annuì e mi condusse verso la tenda che la sua guardia aveva montato per lui. Mentre il sole scendeva basso sull’orizzonte, ci dividemmo un pasto a base di carne secca e latte di asina fermentato, quindi sedemmo l’uno di fianco all’altro mentre la pira funeraria veniva accesa e i corpi dei Mongoli caduti salivano verso la loro dimora celeste.
Rimasi con lo sguardo fisso sul fuoco, conscio del fatto che la dimora degli dèi non era che una sontuosa città fantasma nel remoto futuro, abbandonato dagli stessi dèi per salvare la propria vita. Non c’era più nessuno a proteggerci o a guidarci. Non potevamo contare su altri che noi stessi.
— Adesso — disse Subotai, mentre le ultime ceneri della pira ardevano contro l’oscurità della notte — portami il resto del mio esercito.
M’inchinai e mi allontanai di circa un miglio dall’accampamento. Trasportare l’intero esercito e tutti i familiari dei guerrieri che vi facevano parte non sarebbe stato facile. Forse, senza l’aiuto di Anya o degli altri Creatori, non avrei potuto farcela. Ma se non altro, potevo tentare.
Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla città di capanne di legno e fango conquistata dai Mongoli. Non accadde nulla.
Mi concentrai di più. Ancora nessun risultato.
Sollevando il capo, osservai le stelle nel cielo. Sheol brillava debolmente, semplice riflesso della sua potenza originaria. Allora compresi che Set aveva bloccato la mia via d’accesso al continuum così come aveva fatto con Anya la prima volta che eravamo giunti in quel luogo.
Mi aveva preso in trappola insieme a Subotai e a un migliaio di guerrieri.
Udii la sua risata sibilare nella mia mente. Avevo condotto il generale mongolo in trappola. Set aveva intenzione di tenerci lì e ucciderci fino all’ultimo uomo.
Non potevo affrontare Subotai. Mi aveva seguito sulla parola, fiducioso che lo avrei condotto in una terra dove lui e la sua gente, una volta sconfitti gli alieni, avrebbero potuto vivere in pace. Si era fidato di me, e mi aveva chiamato amico. Come potevo dirgli che l’avevo fatto cadere in una trappola mortale?
Perché questo era ciò che avevo fatto. Non avrei più potuto guardare il volto indurito dalle battaglie del mio generale mongolo finché non avessi risolto la situazione o fossi morto nel tentativo.
Da Set avevo imparato una cosa di estrema importanza. L’energia è la chiave di qualsiasi potere. Distruggi la sua fonte d’energia e il tuo nemico non è più una minaccia. La fonte d’energia di Set era il pozzo nucleare che scendeva nel cuore fuso della Terra. Dovevo raggiungerlo e, in qualche modo, riuscire a distruggerlo.
Il pozzo era all’interno della fortezza di Set, a circa una giornata di marcia dal luogo in cui le truppe di Subotai si erano accampate per la notte. Dovevo recarmi laggiù, e alla svelta, prima che Set vibrasse un attacco in grado di sterminare tutti i Mongoli.
Ma io ero già tagliato fuori dalla mia fonte d’energia. Set aveva posto una barriera fra me e il cosmo, impedendomi di utilizzare l’energia proveniente dal sole e dalle stelle. Ma questa schermatura era soltanto una bolla che copriva la terra immediatamente intorno a me, o avvolgeva piuttosto l’intero pianeta in un sudario che bloccava tutta l’energia emanata dalle stelle?
Non avrebbe fatto nessuna differenza. Comunque ero tagliato fuori dalla fonte d’energia che mi avrebbe permesso di affrontare Set. Non c’era che una cosa da fare: raggiungere il suo pozzo nucleare e distruggerlo, o usarlo contro di lui.
Comunque non potevo fare nulla nel giro di una notte. Impadronitomi di un cavallo mongolo, partii al galoppo in direzione nord-est, verso la fortezza di Set. Potevo solo sperare di raggiungerla prima che il demonio potesse sferrare un attacco decisivo contro Subotai.
Il sole si levò nella nebbia, debole, pallido spettro della sua stessa gloria. Lo schermo di Set doveva essere incredibilmente forte. Pterosauri attraversavano zigzagando il cielo grigio e stinto. Era impossibile che non riuscissero a scorgermi, solo in quell’immensa distesa d’erba.
Mi domandai cosa Subotai pensasse di me. Probabilmente non aveva ancora cominciato a preoccuparsi, immaginando che fossi tornato in Moscaria e che stessi compiendo i passi necessari a portare il resto dell’esercito presso di lui. Non potevo sopportare che pensasse a me come a un traditore. Non temevo la sua rabbia o la sua punizione, ma mi sentivo infelice al pensiero di aver tradito la sua fiducia.
Nonostante l’aspetto malato del sole, l’aria si fece piuttosto calda. Lo schermo di Set era selettivo, e permetteva ai raggi di maggior lunghezza d’onda di raggiungere la terra e continuare a riscaldarla. Se avessi avuto strumenti adatti, mi avrebbero confermato che nessuna lunghezza d’onda ad alta energia era in grado di penetrare quella barriera. Né poteva farlo alcuna particella cosmica portatrice di energia: ne ero certo.
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