Subotai inarcò un sopracciglio.
— Ho sempre pensato che simili racconti non fossero altro che favole per bambini.
Chinando leggermente il capo in segno di umiltà, risposi: — Le favole talvolta possono tramutarsi in realtà, mio signore. Tu stesso hai compiuto imprese che sarebbero sembrate inverosimili ai vostri antenati.
Il generale mongolo emise nuovamente quel suono simile a un sospiro. Gli altri rimasero in silenzio.
— Molto bene — disse Subotai. — Domattina mi condurrai in quella strana terra che hai descritto. La mia guardia personale ci accompagnerà.
— Quanti uomini verranno con noi? — domandai.
Subotai abbozzò un sorriso. — Circa un migliaio. Tutti con armi e cavalli.
Il guerriero seduto al suo fianco sinistro disse, senza intenzioni umoristiche: — Avrai bisogno di un tappeto molto grande, Orion.
Gli altri scoppiarono a ridere. Subotai sorrise, quindi, leggendo la sorpresa sul mio volto, sbottò in una sonora risata. Ridevano di me. Gli altri guerrieri si rotolavano sui loro cuscini, sbellicandosi fino alle lacrime. Anch’io presi a ridere a mia volta. I Mongoli non ridono degli stregoni e delle loro pratiche magiche. Perciò non mi temevano. E finché non mi avessero temuto, non avrebbero cercato di pugnalarmi alle spalle.
Uno dei veterani al seguito di Subotai mi guidò verso uno stallo nel coro della chiesa in cui erano stati sistemati un certo numero di coperte e di cuscini così da formare un giaciglio. Il mio sonno fu profondo e privo di sogni.
Il mattino seguente il sole splendeva malato attraverso brandelli di nuvole grigie. La pioggia era cessata, ma le strade di Kiev erano torrenti di fango grigiastro e viscoso.
Il furiere di Subotai aveva passato la notte a rovistare tra le prede di guerra in cerca di una veste che potesse calzarmi. Evidentemente, nulla che fosse stato confezionato per un Mongolo mi andava bene.
Scesi verso la navata della chiesa sconsacrata, vestito di una maglia di cotta, pantaloni di pelle e stivali un po’ troppo aderenti ma caldi. Al mio fianco pendeva una scimitarra ricurva d’acciaio di Damasco, con l’elsa scintillante di pietre preziose. Il vecchio, fedele pugnale donatomi da Odisseo in persona era nascosto nella mia cintura.
Uno schiavo dai capelli rossi mi guidò al di fuori della chiesa, dove un paio di guerrieri mongoli attendevano sui loro pony. Reggevano per le redini un altro cavallo, un po’ più grande degli altri due, che doveva essere destinato a me. Senza pronunciare una sola parola cavalcammo attraverso le strade coperte di fango, oltrepassando il portale che avevo varcato la notte precedente.
Al di là delle mura della città attendeva la guardia personale di Subotai, un migliaio di coraggiosi guerrieri che avevano battuto tutti gli eserciti schieratisi contro di loro dalla Grande Muraglia Cinese alle rive del Danubio. A cavallo di animali piccoli ma robusti, disposti in perfetta formazione militare, ogni guerriero reggeva per le redini due o tre cavalli di scorta carichi di tutto l’equipaggiamento di cui poteva aver bisogno.
Alla testa della formazione, il magnifico stallone bianco di Subotai pestava il terreno con l’impazienza che sicuramente doveva provare anche il generale.
— Orion! — mi chiamò questi mentre mi avvicinavo a lui. — Siamo pronti per partire.
Erano un ordine e una sfida insieme. Sapevo di dover trasportare l’intera massa di quell’esercito attraverso lo spaziotempo, ma non volevo farlo bruscamente com’ero solito.
Così, con teatralità, osservai la debole luce del sole con gli occhi socchiusi, mi piegai sulla sella scricchiolante e feci un cenno in direzione nord.
— Da quella parte, mio nobile Subotai.
Il generale proruppe in un ordine gutturale rivolto al guerriero che cavalcava al suo fianco e l’intera formazione girò su se stessa, seguendoci a passo di trotto.
Li guidai verso le scure foreste il cui margine si stendeva appena a mezzo chilometro dalle mura della città. Concentrandomi con notevole intensità, pronunciai in silenzio una preghiera d’aiuto rivolta ad Anya mentre cercavo di focalizzare tutta l’energia di cui potessi disporre sul balzo spaziotemporale.
Una tenue nebbia grigia si alzò dal terreno avvolgendoci fra le sue spire gelide. Le nostre cavalcature avanzavano lentamente, Subotai al mio fianco, le sue guardie del corpo dietro di me, sufficientemente vicine da farmi a pezzi al primo movimento sospetto. La nebbia si infittì, smorzando l’udito oltre che la vista. Tutto ciò che riuscivo a udire era l’acciottolio sordo degli zoccoli sul terreno, lo sbuffo di un cavallo, il tintinnio dell’elsa di una spada contro una fibbia di ferro.
Ignorai qualsiasi distrazione. Ignorai persino lo stesso Subotai mentre raccoglievo tutte le mie forze per trasportare l’intero esercito attraverso lo spaziotempo. Avvertii l’ormai familiare sensazione di freddo intenso, che scomparve quasi immediatamente.
Mi accorsi di aver tenuto gli occhi chiusi. Quando li riaprii eravamo ancora in un bosco. Ma la nebbia si era dissolta. Il terreno sotto di noi era asciutto. La luce del sole che filtrava attraverso le fitte fronde degli alberi era intensa e luminosa.
Cavalcammo tra i boschi di Paradiso, diretti verso il limitare nord della foresta. Il periodo era il Neolitico. Eravamo nel tempo e nel luogo in cui Set aveva stabilito la propria dimora per cancellare dalla Terra il genere umano nel suo periodo di maggiore vulnerabilità, per vendicarsi di me e dei Creatori che avevano distrutto il suo pianeta natale, per impadronirsi della Terra e farla sua per l’eternità.
Rivolsi la mia attenzione a Subotai. Cavalcava il suo pony con aria tranquilla e volto impassibile. Ma i suoi occhi saettavano d’ogni dove. Sapeva di non essere più nella terra fredda e umida dei Moscoviti. Il sole era caldo persino sotto le fronde di quegli alberi maestosi. Il generale analizzava ogni pianta, ogni roccia, ogni minuscolo animaletto che fuggiva nel sottobosco. Tracciava nella sua mente una mappa minuziosa di quella terra a lui completamente aliena.
Infine mi chiese: — Hai detto che non ci sono altri uomini, qui?
— Qualche tribù dispersa qua e là, mio signore. Ma sono tutte deboli, e non molto numerose. Non posseggono armi a eccezione di rozze lance di legno e archi che non raggiungono nemmeno lontanamente la gittata degli archi mongoli.
— E poche donne, quindi?
— Piuttosto poche, temo.
Il Mongolo emise un grugnito. — E i mostri? Di cosa sono armati?
— Usano grandi rettili e li fanno combattere ai loro ordini… draghi più grandi di dieci cavalli, con micidiali artigli e zanne impietose.
— Animali — borbottò Subotai.
— Animali controllati dalla mente dei loro padroni — lo corressi — in grado di combattere con coraggio e intelligenza.
A quella precisazione, Subotai non aggiunse parola.
Per gran parte della giornata continuammo ad avanzare nella foresta; i guerrieri mongoli dietro di noi scivolavano tra gli alberi, silenziosi come spettri. Non ci fermammo per mangiare; consumammo carne secca e bevemmo acqua senza smontare mai di sella.
Il sole era quasi sceso dietro l’orizzonte quando raggiungemmo il limitare della foresta, ai margini dell’interminabile mare d’erba che si stendeva a vista d’occhio.
Subotai fece un sorriso. Spinse il proprio pony fuori dal riparo degli alberi e avanzò un centinaio di metri lungo la pianura.
— Per quanto si stende questa terra? — domandò.
Compiendo rapidi calcoli mentali, urlai in risposta: — Più o meno come la distanza fra Bagdad e Karakorum.
Il generale mongolo lanciò un grido selvaggio e spronò al galoppo la propria cavalcatura. Le sue guardie del corpo, colte di sorpresa, partirono a passo di carica dietro di lui, lasciandomi solo sulla mia sella a bearmi dell’inusuale vista di un gruppo di guerrieri mongoli schiamazzanti per la gioia come bambini.
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