Ben Bova - Orion e la morte del tempo

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Orion e la morte del tempo: краткое содержание, описание и аннотация

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Orion non è un uomo come tutti gli altri: tanto per cominciare, è immortale. Scelto dai Creatori per essere il loro campione nei frangenti più pericolosi e contro nemici insidiosissimi, è costretto ad andare alla deriva nel tempo per battersi contro i pericoli che si annidano in epoche e secoli nascosti. Insieme ad Anya, una ragazza che condivide la sua sorte, è costretto questa volta a lottare non solo contro le forze ostili ai Creatori, gli enigmatici esseri che reggono le fila del suo destino, ma contro i Creatori stessi per riconquistare la libertà. E la partita si decide in un’era lontanissima, dove la morte del tempo non è più metafora ma realtà.

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M’incamminai in quella direzione. Cominciò a piovere, una pioggia gelida mista a nevischio. Strinsi la pelle di leone più stretta intorno alle mie spalle e accelerai il più possibile la circolazione sanguigna nei capillari per mantenere la temperatura interna del mio corpo. La testa e le spalle piegate in avanti, procedetti fra la pioggia gelida mentre il terreno sotto i miei piedi si trasformava in fango scivoloso.

La città non era in preda alle fiamme, il che poteva significare che l’esercito di Subotai l’aveva posta in assedio oppure che l’aveva già catturata. Pensai più probabile quest’ultima possibilità, perché non scorsi nessun accampamento, né guerrieri di pattuglia a cavallo.

Era già notte fonda quando raggiunsi le porte della città. Il muro che la cingeva non era che una rozza palizzata di pali appuntiti, piantati in quello che stava rapidamente trasformandosi in un mare di fango. Il portale era un insieme di assi lisce dotato di alcune fessure attraverso le quali poter scagliare le frecce.

Era aperto. Buon segno. Non era imminente nessuna battaglia.

Una mezza dozzina di guerrieri mongoli si riparavano dalla pioggia sotto il parapetto aggettante del portale, riscaldandosi al calore di un fuocherello che crepitava irregolarmente, solamente in parte protetto dalla pioggia scrosciante.

Quei guerrieri erano tenaci veterani di guerra, coperti di cicatrici. Eppure senza i loro pony sembravano piccoli, quasi come bambini. Bambini piuttosto temibili, a ogni modo. Indossavano una casacca di cotta e un elmetto conico d’acciaio. Dalle loro cinture pendevano pugnali e sciabole ricurve. Notai gli immancabili archi e le faretre colme di frecce appoggiati contro le tavole del portale.

Uno di loro si fece avanti e mi si parò di fronte.

— Alt! — ordinò. — Chi sei, e perché vuoi entrare?

— Sono Orion, amico del grande Subotai. Vengo dal Karakorum, e porto un messaggio da parte del Gran Khan.

Gli occhi del guerriero si fecero sottili come fessure. — I nobili hanno eletto un nuovo Gran Khan come successore di Ogotai?

Scossi il capo. — Non ancora. Kubilai e gli altri si stanno riunendo in Karakorum per compiere la loro scelta. Il mio messaggio riguarda altre faccende.

Il Mongolo posò gli occhi sulla mia pelle di leone, e ricordai che non doveva aver mai visto un denti-a-sciabola prima d’allora. Ma non mostrò alcun segno di curiosità. — Che prova puoi darmi a sostegno delle tue parole?

Sorrisi. — Manda un messaggero al cospetto di Subotai, che riferisca che Orion è qui per incontrarlo, fornendogli una mia descrizione. Vedrai che sarà contento di incontrarmi di nuovo.

Mi squadrò dalla testa ai piedi. Fra i Mongoli la mia taglia era decisamente fuori dal comune. E Subotai conosceva bene le mie qualità di guerriero. Speravo che non gli fosse giunta ancora voce del fatto che avevo assassinato il Gran Khan Ogotai.

Il guerriero mandò uno dei suoi uomini al cospetto di Subotai quindi, a malincuore, mi permise di dividere il modesto calore del loro fuoco.

— È una bella pelle quella che indossi — disse un’altra guardia.

— Ho ucciso questo animale molto tempo fa — risposi.

Mi dissero che quella città era la capitale dei Moscoviti. Ricordai che Subotai era stato impaziente di imparare tutto ciò che potevo riferirgli sulle nere regioni dell’Ucraina e sulle steppe della Russia che diradavano nelle pianure di Polonia e, al di là dei Carpazi, in Ungheria e verso il cuore dell’Europa.

Quando il messaggero fece ritorno la mia schiena era un blocco di ghiaccio, sebbene le mani e il viso fossero ancora ragionevolmente caldi. Insieme al messaggero giunse una coppia di guerrieri vestiti di lucenti corazze, con ricchi gioielli incastonati nell’elsa delle spade. Senza dire una parola, costoro mi guidarono attraverso le strade piene di fango della capitale dei Moscoviti, verso gli alloggi di Subotai.

Non era molto diverso dal Subotai che avevo incontrato in una vita precedente. Piccolo e robusto come tutti i suoi guerrieri, la sua barba e i capelli erano grigi come il ferro, e i suoi occhi erano di un nero straordinariamente intenso. Erano occhi vivaci e intelligenti, curiosi di conoscere tutto ciò che esisteva su questo mondo.

Aveva occupato una chiesa, probabilmente in quanto quella struttura di legno era l’edificio più grande esistente in città, in modo da costituire un salone piuttosto spazioso per le udienze.

Percorsi tutta la lunghezza della navata in direzione di Subotai; tutti i banchi della chiesa erano stati portati via. Le immagini severamente pie dei santi bizantini osservavano meste le file di colonne fra le quali l’altare era stato rimosso. Subotai sedeva lì insieme a pochi altri suoi fedeli compagni e una dozzina circa di giovani donne locali che servivano vino e cibo.

Dietro di lui, l’abside della chiesa era carica di bassorilievi d’oro scintillanti alla luce delle candele. Parte dell’oro era già stata smantellata dalle pareti; da quel che sapevo, presto i Mongoli avrebbero fuso anche quel poco che ne era rimasto. La volta, alta sopra la mia testa, era impreziosita da un mosaico raffigurante un Cristo con le mani ferite sollevate in segno di benedizione. Rimasi stupito per l’estrema somiglianza del suo volto con quello del Creatore che conoscevo col nome di Zeus.

Guerrieri armati indugiavano pigramente lungo le pareti laterali della chiesa sconsacrata, bevendo e parlando fra di loro. Non mi lasciai ingannare dalla loro apparente indolenza. Nel giro di un istante potevano mozzare la mano di chiunque avesse compiuto il più piccolo gesto minaccioso. A un solo ordine di Subotai erano pronti a ricompensare un mentitore o chiunque recasse un dispiacere al loro generale versandogli argento fuso negli occhi e nelle orecchie.

Tuttavia quei Mongoli conoscevano i valori della lealtà e dell’onestà molto meglio di gran parte dei cosiddetti popoli civilizzati. E il loro coraggio era fuori discussione. Potevano attaccare la più inespugnabile delle fortificazioni fino a quando nessuno di loro fosse rimasto in vita.

Subotai beveva da un calice dorato su cui erano incastonate un gran numero di gemme. I luogotenenti seduti al suo fianco reggevano coppe d’argento e d’alabastro. Non avrebbe mai cessato di meravigliarmi: per quanto un popolo fosse povero o rozzo, le sue chiese costituivano sempre un bottino sostanzioso per qualsiasi razziatore.

— Orion! — gridò Subotai, balzando in piedi. — L’uomo dell’Occidente!

Sembrava sinceramente contento di rivedermi. Nonostante i capelli grigi era agile e impetuoso come un ragazzo.

— Mio nobile Subotai. — Mi fermai a qualche passo di distanza da lui e feci un inchino. Quando l’avevo conosciuto, era pervaso da un’inarrestabile energia in grado di trascinare lui e le sue armate fino ai più remoti recessi della Terra. Ero felice di constatare che quell’energia non si era affievolita. Sarebbe stata estremamente utile, se avesse deciso di accettare la mia richiesta.

Mi stese la mano, e io strinsi il suo polso con lo stesso vigore con cui lui afferrò il mio.

— È un piacere incontrarti di nuovo, uomo dell’Occidente.

— Ti ho portato un dono, mio signore — dissi, con tono solenne.

Mi tolsi di dosso la pelle del denti-a-sciabola e gliela porsi. La testa dell’animale era rimasta piegata all’indietro, e fino a quel momento il Mongolo non aveva potuto ammirarne le zanne lucenti. Le guardò con occhi stralunati.

— Dove hai scovato una bestia simile?

Non potei trattenermi dal sorridere. — Conosco luoghi in cui dimorano animali strani e portentosi.

Egli mi ricambiò il sorriso e mi guidò verso i cuscini sui quali era stato seduto. — Raccontami le ultime notizie del Karakorum.

Mentre faceva cenno di sedere sui cuscini alla sua destra, tirai un sospiro di sollievo. Subotai non mi avrebbe mai stretto le mani, se avesse avuto intenzione di uccidermi. Non era capace di tradire un amico. Né lui né alcuno dei suoi luogotenenti sembravano a conoscenza della morte del Gran Khan Ogotai, l’uomo che, in un’altra vita, era stato mio amico.

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