Frederik Pohl - Gli antimercanti dello spazio

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Gli antimercanti dello spazio: краткое содержание, описание и аннотация

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Sono passati trent’anni da quando Frederik Pohl inventò quei
che Kingsiey Amis nelle sue
mise al disopra dello stesso
di Orwell. Fu allora che dagli uffici di Madison Avenue le grandi compagnie pubblicitarie assunsero il controllo della Terra, ma fecero lo sbaglio di mandare un’astronave sul pianeta Venere. Oggi Venere è il rifugio dei refrattari e dei ribelli, il simbolo dell’anti-pubblicità, la bandiera dei nemici della produzione e del consumo. I rapporti tra i due pianeti si fanno ogni giorno più difficili. La situazione insomma è così tesa, che Frederik Pohl ha sentito la necessità di scrivere un nuovo romanzo sullo scottante argomento. E l’ha scritto.

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Dixmeister mi lanciò un’occhiata cupa. — Immagino che vorrete controllare tutti i circuiti.

— No, a che scopo? Il difetto dev’essere fuori. — Lui aprì la bocca per protestare, ma lo prevenni: — Ah, senti, tirami fuori tutta quella robaccia dai magazzini. Mi serviranno come uffici.

— Ma signor Tarb !

— Dixmeister — dissi gentilmente, — quando sarai di Prima Classe, comprenderai la necessità di restare solo, in certi momenti. Per il momento, non provarci. Fai solo quello che ti dico.

Lo lasciai al suo lavoro, e tornai nell’appartamento di Mitzi, sperando molto di trovarcela. Avevo ancora un problema o due da risolvere. Mitzi non era la persona che poteva aiutarmi, ma poteva almeno darmi il tocco di una elle amata, e la consolazione di un corpo caldo.

Ma non c’era. C’era solo una nota su carta auto — distruttiva, sul cuscino, che diceva che sarebbe andata a Roma per alcuni giorni.

Non era quello che volevo, ma mentre guardavo dalla finestra la città sporca e addormentata, con mezzo decilitro di spiriti neutri in mano, mi venne in mente che forse era quello di cui avevo bisogno.

3

I copioni erano pronti. I candidati che dovevano recitarli erano stati selezionati e nascosti in giro per la città. Non era stato difficile trovarli, perché sapevo quello che mi serviva; portar in città, e prepararli era stato molto più complicato. Ma adesso erano pronti. Da casa telefonai alla Wackerhut perché mandassero due agenti a prelevarli e portarli allo studio di registrazione, e quando arrivai in ufficio, c’erano anche loro.

La registrazione non presentò difficoltà… be’, relativamente. Relativamente a un’operazione al cervello di sei ore, per esempio. Mi ci volle tutta la mia abilità e la mia concentrazione, per far provare gli attori, controllare i truccatori che li preparavano, far marciare le squadre di produzione, e dirigere ogni mossa e ogni parola. La cosa facile, consisteva nel fatto che ognuno degli attori diceva le sue battute con facilità e convinzione, dal momento che io le avevo scritte appositamente per loro. La cosa difficile, era che potevo usare solo troupe ridotte al minimo, dal momento che meno gente sapeva cosa stavo facendo, meglio era. Quando l’ultimo filmato fu terminato, spedii tutti quanti, truccatori, cameramen, elettricisti, a San Antonio, Texas, per immaginarie riprese in loco, con l’ordine di aspettare il mio arrivo. Che non sarebbe mai avvenuto.

Ma almeno a San Antonio non avrebbero parlato con nessun altro. Poi spedii i miei attori nelle stanze ripulite in cantina, e mi preparai alla parte più difficile. Avrei voluto avere il coraggio di prendere una pillola per calmarmi i nervi. Tirai un profondo respiro, feci un po’ di vigorosi piegamenti, per cinque minuti, in maniera da essere affannato, e mi precipitai nell’ex ufficio di Mitzi. Val Dambois alzò la testa di scatto, dai numeri sul suo schermo, mentre io ansimavo: — Val! Chiamata urgente da Mitzi! Devi partire per la Luna! L’agente ha avuto un attacco di cuore, l’anello di comunicazione è saltato!

— Cosa diavolo stai dicendo?La faccia grassoccia gli tremava. In tempi normali, Dambois non ci sarebbe cascato, ma anche lui era stato tartassato duramente nelle ultime settimane.

Farfugliai: — Messaggio da Mitzi! Ha detto che è urgentissimo. C’è giù un taxi pronto… hai appena il tempo di arrivare all’astroporto…

— Ma Mitzi è… — Si interruppe, guardandomi incerto.

— A Roma, lo so. Ha chiamato da lì. Ha detto che deve arrivare un ordine molto importante, e dev’esserci qualcuno sulla Luna per riceverlo. Muoviti, Val! — lo pregai, prendendogli la valigetta, il cappello, il passaporto; lo spinsi fuori dall’ufficio, nell’ascensore, nel taxi. Un’ora più tardi chiamai lo spazioporto per sapere se era partito.

Mi dissero di sì.

— Dixmeister! — chiamai. Dixmeister apparve immediatamente sulla porta, con la faccia rossa, mezzo panino alla soia in una mano, mentre con l’altra stringeva ancora il telefono. — Dixmeister, quei nuovi spot che ho appena registrato. Devono essere trasmessi questa sera.

Lui inghiottì il boccone che aveva in bocca. — Sì, certo, signor Tarb, suppongo che si possa fare, ma ce ne sono degli altri in programma…

— Spostateli — ordinai. — Nuovi ordini dall’alto. Li voglio in onda fra un’ora, per il momento del massimo ascolto. Annulla tutta gli altri e usa quelli nuovi. Forza, Dixmeister.

Era tempo di passare all’azione.

Non appena Dixmeister fu uscito, me ne andai a mia volta, e chiusi la porta alle mie spalle. Non l’avrei più riaperta, nello stesso mondo. Molto probabilmente non l’avrei più riaperta del tutto.

Il mio nuovo ufficio era molto meno lussuoso del vecchio, soprattutto a causa del posto dove si trovava: sei piani sotto terra. Comunque, considerando il poco tempo che avevano avuto a disposizione, quelli della Manutenzione avevano fatto del loro meglio. Ci avevano messo tutto quello che avevo chiesto, compresi una dozzina di schermi, che mi fornivano tutto quello di cui potevo aver bisogno. C’erano una decina di scrivanie, tutte occupate dai membri della mia piccola squadra d’assalto. Ancor meglio: il Servizio Tecnico aveva chiuso un paio di porte, e ne aveva aperte di nuove, secondo gli ordini. Non era più possibile accedere direttamente dal corridoio alla sala comunicazioni. L’unica via d’accesso al centro nervoso dell’Agenzia passava attraverso i miei nuovi uffici. Il piccolo stanzino dove di solito oziavano gli ingegneri addetti alle comunicazioni era vuoto, e la porta adesso aveva una serratura. Gli ingegneri poi se n’erano andati da un po’, perché avevo dato loro una settimana di ferie, spiegando che essendo il sistema completamente automatico volevo provare a lasciarlo senza sorveglianza. Non erano sembrati troppo convinti, fino a quando non li avevo rassicurati che la cosa non minacciava il loro posto di lavoro. A questo punto erano stati contentissimi di andarsene.

In breve, il posto corrispondeva in tutto a ciò che avevo ordinato, ed era dotato di tutto ciò che concepibilmente poteva servire al successo del mio progetto. Se poi fosse anche sufficiente, questa era una questione del tutto diversa, ma ormai era troppo tardi per preoccuparsene. Feci il mio sorriso più tranquillo e sicuro, mentre mi avvicinavo a Jimmy Paleologue, seduto alla scrivania nel corridoio. — Hai tutto quello che ti serve? — chiesi allegramente.

Lui aprì il cassetto per farmi vedere la pistola paralizzatrice, prima di sorridere a sua volta. Se c’era un’ombra di fatica nel sorriso, non si poteva biasimarlo; dopo che era uscito dal centro di disintossicazione, gli era stato promesso che avrebbe riavuto il suo vecchio lavoro di tecnico campbelliano; io l’avevo trovato, e l’avevo convinto a seguirmi in quell’impresa incerta. — Gert ed io abbiamo preparato una retetrappola appena dopo la porta, e un’altra dentro la vostra stanza — disse. — Sono tutti armati tranne Nelson Rockwell… non riesce a sollevare abbastanza il braccio per sparare. Dice che vorrebbe tenere una granata limbale… come ultima risorsa. Cosa ne pensi?

— Penso che sarebbe un pericolo più per noi che per chiunque altro — dissi con un sorriso. Però mi venne in mente che l’idea aveva i suoi meriti. Ma forse era meglio dell’esplosivo. O magari una miniatomica. Se le cose si mettevano male, sarebbe stato meglio per tutti un’evaporazione istantanea e pulita, invece dell’alternativa… Lasciai perdere quei pensieri ed entrai negli uffici.

Gert Martels balzò in piedi e mi venne ad abbracciare. Era stata quella più difficile da reclutare: non avevano voluto farla uscire di prigione, anche dopo che avevo fatto valere il peso dell’Agenzia. Alla fine avevo dovuto offrire un lavoro al comandante della prigione. E Gert era anche quella più felice dell’occasione che le veniva offerta. — Oh, Tenny — disse, ridendo e singhiozzando insieme. — Davvero lo facciamo?

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