Tutto a tempo debito, si disse. Prima devo finire un lavoro. Una promessa da mantenere.
Quando ebbe riconosciuto l’oggetto che si stava avvicinando, si girò e si allontanò dal promontorio verso la pista d’atterraggio. Alle sue spalle l’oceano mormorava incessante contro gli scogli. Le onde raramente si frangevano con fragore su quel mondo privo di lune, anche se l’orbita attorno a Florasol era così piccola da permettere al sole di provocare maree di considerevole entità. L’acqua scintillava di un colore verde giallastro in prossimità della riva, per poi diventare più scura e tendere al violetto in lontananza. A grande distanza si annidavano le nubi nere di un temporale solcate dai lampi dei fulmini, ma sopra di lei e verso est si stendeva un cielo color grigio argenteo. Davanti a lei, invece, la foresta si stendeva fino alla linea costiera, una muraglia fatta di grandi tronchi d’albero, di liane, cespugli, fogliame color rossiccio e terra d’ambra, fiori brillanti, ombre profonde. La foresta faceva apparire piccolissima la radura dove sorgeva la base naxiana. Nell’aria calda e umida si levavano pesanti effluvi di ogni genere.
Dalle capanne scivolavano fuori corpi serpenti lunghi quanto il suo o anche di più. Le loro pelli glabre rilucevano di una varietà di colori; i coloni di New Hallan provenivano da molte e diverse regioni ancestrali, simili solo nella fede e nelle speranze. Diversi di loro stringevano nelle pseudomani estruse attrezzi o strumenti. L’eccitazione può diffondersi con forza e velocità esplosive tra esseri che avvertono direttamente le emozioni. Non che la cosa fosse ingiustificata del resto. Anche Laurice era stata attirata dall’eccitazione verso il promontorio per guardare in direzione di sud-ovest una volta che era arrivata la secca comunicazione che gli aiuti erano per via.
Laurice raggiunse la pista di nuda terra battuta, cotta dal caldo come un mattone. Un hangar di legno col tetto in paglia mostrava il suo ventre vuoto. Il velivolo in dotazione al campo aveva trasportato via i morti e i feriti per curare i secondi ed eventualmente cremare i primi, abbandonando sul luogo coloro che non avevano subito danni. — Su, muoviti! — esclamò Laurice impaziente, strizzando gli occhi. — Che cosa aspetti? — Una goccia di sudore le scivolò giù dalle sopracciglia finendo in un occhio. Bruciava. Laurice emise una pittoresca imprecazione.
Parabola arrivò in quel momento e si unì a lei. Il botanico aveva pensato di portare con sé un simultrans. L’apparecchio serviva a tradurre fischi e sibili altrimenti incomprensibili in Merse, superfluo per lei, ma indubbiamente necessario per il nuovo arrivato.
— Questo pilota è un tipo estremamente prudente, onorevole signora.
Laurice rispose nella propria lingua, che il Naxiano comprendeva anche se non era in grado di pronunciarla in modo intelligibile. — Be’, immagino che questa zona sia nuova per lui, e non vorrà farsi sorprendere da qualche corrente d’aria strana che lo metta in difficoltà. Anch’io ho imparato a pilotare in modo prudente.
— Le costò fatica ammetterlo e capì che Parabola l’aveva compreso.
Ma quel che è giusto è giusto. Non doveva perdere la calma, né la facoltà di giudizio, adesso che doveva ancora salvare Copperhue. La realtà era che Venafer rimaneva un luogo di misteri, e all’interno di alcuni di essi si celavano trappole mortali.
Un pianeta intero, pensò. (Quante volte aveva pensato le stesse cose sia lì che altrove?) Non l’inferno globale di giungle e paludi che immaginava la maggior parte delle persone; no, un luogo vario quanto lo era Ather. Ma la cara Ather assomigliava più o meno a un’altra Terra, rinnovata e di nuovo virginale. Gli Erthumoi l’avevano presto fatta loro e lei a sua volta li aveva reclamati per sé. Per tutti i secoli che erano seguiti, pochi si erano curati di scendere su Venafer, e nessuno di stabilirvi la propria dimora. Una manciata di scienziati; due imprese che non si erano ingrandite a causa delle difficoltà e dei pericoli che avrebbe posto la loro crescita, niente di strano che la maggior parte di quel pianeta fosse ancora mundus incognitus. Le esplorazioni da lei compiute avevano riguardato mondi di altri soli, altrettanto insoliti ma senz’altro più attraenti. Fino a quel momento.
— Ssst, ecco che scende! — esclamò Parabola. La cosa, la femmina, posò il muso tozzo sulla spalla di Laurice con un gesto stranamente materno. Guardandosi attorno, l’Erthuma fissò i grandi occhi che in realtà non erano d’onice, perché tanto ricchi di calore. — Coraggio, onorevole signora. La nostra attesa è durata meno del previsto; osserva il tuo crono. Copperhue sicuramente vive ancora e presto lo troverai.
Possibile che un Erthuma potesse essere così ricco di comprensione, proprio a quel modo? — Può darsi, può darsi — pregò Laurice. — Anche e soprattutto per il vostro bene.
Parabola si ritrasse di qualche centimetro. — La sua perdita sarebbe veramente un grave colpo per noi. — Il simultrans non riuscì a tradurre il senso di gravità che Laurice comunque intuì. — Copperhue è qualcosa di più di un simbolo, l’eroe che ci ha fatto guadagnare una patria. È diventato un leader, ma temo di non riuscire a spiegare come alla tua razza. Ma anche noi, come te, saremmo molto addolorati dalla dipartita di un amico.
Ora erano circondati da tutti gli altri e rimasero a osservare il cielo. L’oggetto a forma di goccia aveva cominciato a perdere lentamente quota. Poi il carrello d’atterraggio prese contatto col terreno. Nel silenzio che seguì si udirono distintamente il vicino stridio di un’ala di Laurice si fece avanti per andare incontro al pilota. Questi aprì un portello e saltò a terra. Per un momento si soppesarono.
L’uomo era alto, magro, scuro di carnagione, con lineamenti aquilini… bello, nel complesso, pensò lei, e si immaginò come doveva vederla lui. Dopo il ringiovanimento subito qualche anno prima, il suo corpo di media statura non aveva ancora assunto una figura piena; ma Laurice riteneva che la maturità le trasparisse dal viso, abbronzato e dagli occhi castani, col suo casco di capelli ramati, forte di zigomi e, come si era sentita dire più volte, con labbra sensuali. A parte Uldor Enarsson, col quale sarebbe stato comunque poco saggio avviare una relazione troppo intima, lei aveva passato mesi e mesi da sola con i Naxiani… e loro potevano comprendere che cosa provasse. Ma non gli importava. Ciò nonostante le sue guance si accesero per una vampa di calore e lei provò un’irritazione del tutto irrazionale nei confronti del nuovo arrivato.
Del resto l’espressione di quest’ultimo era meno che cordiale.
— Salve — gli disse in tono formale. — Mi chiamo Laurice Windfell.
— Lo so, signora — rispose questi con la stessa rigidità e un accento del Westland. — Io sono Kristan Arinberg, la guida di soccorso che ha ordinato.
Laurice ebbe un sorriso forzato. — Richiesto, direi. Anche se ammetto il tono abbastanza pressante. — La loro stretta di mano fu velocissima.
— Il suo tono quando ha chiamato era tra i più perentori che abbia mai sentito — osservò l’uomo.
— C’è in gioco una vita — scattò Laurice. Ho preparato l’attrezzatura. La vado a prendere e partiremo subito. Non ci rimane ancora luce per molto.
L’uomo le tenne dietro. Quel campo l’aveva forse incuriosito? — Naturalmente ho portato la mia attrezzatura.
— È adatta per questa escursione?
L’uomo arrossì. — Ho lavorato tutta la vita su Venafer. Lei da quanto tempo è qui?
— Da circa un anno. — Naturalmente si riferiva a un anno di Ather, ma come tempo valeva all’incirca un periodo standard di Erthuma. — Sono qui per via dell’esperienza che mi sono fatta su sette pianeti diversi. Prenderemo quel che ho preparato. Durante il volo esaminerò la sua attrezzatura e se necessario faremo qualche modifica.
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