Stesi la mano. Scappò in fondo alla cucina e, sollevando una pila di piatti, disse: — Peccato che siano infrangibili. Se potessi romperli tutti lo farei!
Per un momento pensai che li avrebbe buttati per terra, ma mi guardò e sorrise: — Non temere, non farò scene.
Mi svegliai nel cuore della notte e di colpo sedetti sul letto, pronto e vigile; la stanza era buia, attraverso le porte accostate proveniva una debole luce dal corridoio. Si udiva un debole fischio e questa eco aumentava insieme a colpi attutiti, come di qualcosa di pesante che picchiasse violentemente contro le pareti. «Un meteorite!» pensai. «Ha attraversato la corazza.» — Chi è là?! — Il rantolo continuava.
Mi scossi di colpo. Era la stazione, quella, non un razzo; e quell’eco tremenda… Uscii nel corridoio. La porta del piccolo laboratorio era aperta, c’era la luce accesa. Entrai.
Mi avvolse un freddo intenso. La cabina era zeppa di vapore che trasformava il respiro in neve. C’era un accappatoio, pieno di fiocchi di questa neve, che copriva un corpo che si dibatteva sul pavimento. Riuscii appena a vederla, in mezzo a quella nube; mi buttai su di lei, la presi in braccio, l’accappatoio mi scottava le mani, lei rantolava. Uscii nel corridoio, oltrepassai parecchie porte. Non sentivo più il freddo, solo il suo respiro, che usciva dalla bocca sotto forma di nube, bruciandomi la nuca come una fiamma.
La deposi sul tavolo, tagliai l’accappatoio sul petto e per un secondo guardai la sua faccia tremante; il sangue sulla bocca si era solidificato, le labbra erano nere, sulla lingua brillavano dei cristalli di ghiaccio…
L’ossigeno liquido. Nel laboratorio c’era dell’ossigeno liquido nelle bottiglie Dewar. Nell’alzarla avevo udito uno scricchiolio di vetro infranto. Quanto ne aveva ingoiato?
Non aveva importanza. Una volta ingoiato, l’ossigeno liquido brucia più di un acido; si era bruciata trachea, gola e polmoni. Il suo respiro, secco e raschiante come fogli di carta lacerata, si affievoliva. Occhi chiusi. Agonia.
Guardai gli armadi, pieni di strumenti e medicinali. Tracheotomia? Intubazione? I polmoni non c’erano più! Erano bruciati. Medicine? Quante medicine! File di vasi colorati e scatolette sui ripiani. Il suo rantolo riempiva la sala, la nebbia saliva continuamente dalla sua bocca aperta.
Cuscinetti termoelettrici…
Incominciai a cercarli, ma cambiai parere, saltai verso un altro scaffale, gettavo per aria le scatole di fiale. Ora, una siringa… Dov’erano le siringhe? Eccone una, bisognava sterilizzarla. Incominciai a battere furiosamente contro il coperchio dello sterilizzatore, ma non lo sentivo, come attraverso mani informicolite.
Il rantolo divenne più forte. Corsi verso di lei.
Aveva gli occhi aperti.
— Harey!
Non era neanche un sussurro. Non riuscivo a far uscire la voce. Avevo davanti a me una faccia sconosciuta, come di gesso. Guardavo Harey. Le costole si muovevano sotto la pelle, i capelli, bagnati dalla neve che si scioglieva, erano scompigliati sul posatesta. Mi osservava.
— Harey!
Non riuscivo a dire nient’altro.
Rimasi fermo come un tronco, con le braccia di legno. Le gambe, le labbra, le sopracciglia incominciavano a bruciarmi sempre di più, ma quasi non lo sentivo. Una goccia di sangue si sciolse e colò sulla sua guancia, disegnando una riga trasversale. La lingua tremò e scomparve. Rantolava ancora. Le presi il polso, non batteva più. Aprii l’accappatoio e appoggiai l’orecchio contro il corpo gelido per udire il cuore. Attraverso un rumore come di un incendio udii il battito, un galoppo, troppo veloce per poter contare i colpi. Ero fermo lì, chino, con gli occhi chiusi. Qualcosa toccò la mia testa. M’aveva messo le dita tra i capelli. La guardai negli occhi.
— Chris — mormorò. Le presi la mano; mi rispose con una stretta che quasi mi stritolò. Mi sorprese la lucentezza sul suo viso, il bianco degli occhi brillò; lei si schiarì la gola e tutto il corpo era percorso da convulsioni, non riuscivo a tenerla sul tavolo. Mi sfuggì e picchiò la testa contro il margine di una bacinella di porcellana. La sorreggevo e la spingevo contro il tavolo, ma mi sfuggiva. Fui subito inzuppato di sudore, con le gambe come di gomma. Quando le convulsioni diminuirono, provai a farla sdraiare. Boccheggiò, cercando aria. In mezzo a quell’orribile volto tumefatto si aprirono gli occhi di Harey.
— Chris — ringhiò. — Quanto… quanto dura, Chris?
Incominciava a soffocare, una spuma rosea le salì alle labbra, di nuovo le vennero le convulsioni. La trattenevo col resto delle mie forze. Cadde sulla schiena con tale impeto che le batterono i denti, e ansimava.
— No, no, no — sillabava dopo ogni respiro, e ognuno sembrava fosse l’ultimo. Ma le convulsioni tornarono ancora una volta; nei brevi intervalli inspirava l’aria con uno sforzo che faceva sporgere tutte le costole. Infine le palpebre mostrarono gli occhi, occhi spenti. Divenne fredda. Pensai che fosse la fine. Non provai nemmeno a toglierle la schiuma rosa dalle labbra, rimasi fermo davanti a lei, chino. Udivo, molto lontano, squillare un campanello. Aspettavo il suo ultimo respiro; allora sarei caduto sfinito sul pavimento; ma lei continuava a respirare, senza più rantolare, ogni volta più adagio, e la punta del seno, che fino a poco prima era quasi fermo, incominciava a muoversi ritmicamente seguendo il battito del cuore. Rimanevo in piedi a osservarla, la sua faccia diventava più rosea. Non capivo ancora niente. Le mani mi si bagnarono di sudore e mi sembrava di diventare sordo, come se qualcosa di morbido, di elastico riempisse le mie orecchie, continuavo a sentire quel campanello che suonava come se fosse incantato.
Alzò le palpebre e i nostri occhi si incontrarono. «Harey» volevo dire, ma mi mancò la voce; il mio volto era impietrito, una maschera pesante. Potevo solo guardarla.
I suoi occhi perlustrarono la stanza, scosse la testa. C’era un silenzio assoluto. Dietro di me, in un mondo lontano ed estraneo, l’acqua cadeva ritmicamente da un rubinetto non chiuso. Lei si sollevò su un gomito. Sedette. Retrocessi. Mi osservava.
— Cosa — disse, — cosa…? No… non ci sono riuscita? Perché…? Perché mi guardi così…? — E di colpo urlò: — Perché mi guardi così! — Cadde il silenzio. Guardò le sue mani. Mosse le dita. — Sono io…? — domandò.
— Harey — dissi senza fiato, muovendo solo le labbra.
Alzò la testa.
— Harey…? — ripeté. Slittò lentamente verso il pavimento e si mise in piedi. Perse l’equilibrio, poi lo ritrovò, fece qualche passo. Faceva tutto meccanicamente, mi guardava come se non mi vedesse. — Harey? — ripeté lentamente ancora una volta. — Ma… io… non sono Harey. Chi sono…? Harey? E tu? Tu? — Improvvisamente gli occhi si allargarono, si accesero e sorrise. Lo stupore apparve sulla sua faccia. — Forse anche tu… Chris, forse anche tu?
In silenzio mi accovacciai appoggiato all’armadio. Pieno di paura, aspettavo.
Abbassò le braccia.
— No — disse. — No, perché hai paura. Senti, io non posso.
Non si può. Non ho visto nulla. Io, adesso, io continuo a non capire, è mai possibile? Io… — stringeva i pugni delle sue mani bianche — non so niente, al di fuori di… di Harey! Pensi che finga? No, non fingo, parola d’onore, non fingo.
Le ultime parole quasi le urlò. Cadde sul pavimento, piangendo. Quel suo grido mi strinse il cuore. Con un salto la raggiunsi e l’abbracciai. Si difendeva, mi respingeva, gemendo senza lacrime, urlando: — Lasciami! Lasciami! Ti faccio schifo. Lo so! Non ti voglio così! Non voglio! Lo vedi che non sono io, non sono io, non io, non…
— Taci! — gridai scuotendola; entrambi urlavamo come incoscienti, in ginocchio. Harey sbatteva la testa contro le mie braccia. Io la stringevo a me con tutte le mie forze. A un tratto ci fermammo ansimando pesantemente. L’acqua gocciolava ritmicamente dal rubinetto.
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