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Lester del Rey: Nelle tue mani

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Lester del Rey Nelle tue mani

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Si avvicinò ad esso senza uno scopo, lo afferrò per la parte metallica e colpi la parete col manico di legno; un’altra scheggia si staccò dal legno, un po’ di polvere vecchia di secoli s’innalzò turbinando e ricadde, ma ciò non offri nessuna nuova via d’uscita. Niente l’offriva. L’umanità, e gli altri robot, i suoi simili, dovevano esser morti molto tempo prima, lasciandola senza nessuna speranza di libertà, ma altresì senza nessun uso possibile di essa, se fosse riuscita a conquistarla.

Un tempo, aveva elaborato piani e progetti per ricostruire l’eredità dell’uomo, grazie alle sue vaste conoscenze di psicologia, ma adesso lo scrittoio coperto di appunti era soltanto una presa in giro; allungò stancamente una mano…

E s’immobilizzò, diventando una statua di metallo! Attraverso la parete di cemento un fioco segnale l’aveva raggiunta, animando la radio ricevente che faceva parte di lei!

Concentrando in un unico sforzo disperato tutta la sua energia, inviò a sua volta un segnale; ma non vi fu risposta. Restò immobile per parecchi minuti, mentre i segnali continuavano a giungerle dall’esterno, sempre più intensi, ma sempre vaghi e distaccati, del tutto inconsci della sua presenza. Lei si riscosse, concentrò l’attenzione… e come un lampo improvviso, i pensieri dell’altra mente robotica divennero più potenti, chiari e comprensibili: ma erano pensieri incoerenti, sconvolti, folli! E proprio mentre la loro demenza si palesava, cominciarono ad affievolirsi; un attimo dopo l’altro, finirono per svanire in distanza, e la lasciarono di nuovo sola e senza speranza!

Con uno sferragliante grido selvaggio, scagliò l’inutile piccone contro la parete, da cui rimbalzò con un’eco assordante. Il robot-femmina non era più senza uno scopo; i suoi occhi avevano osservato le schegge di cemento che si staccavano dal muro sotto l’urto della punta metallica acuminata, e fu rapida ad agguantare il piccone prima che cadesse a terra, e questa volta strinse il manico di legno tra le mani robuste. Con tutta la forza dei suoi magneti, sollevò il piccone e lo vibrò, mentre i suoi piedi scostavano a calci i frammenti che cadevano giù in una fitta pioggia, per la forza e la rapidità dei suoi colpi.

Dietro a quel muro che si stava sbriciolando in fretta c’era la libertà… e la follia! Certo non poteva esserci nessuna vita umana in un mondo che poteva far impazzire un robot, ma se ci fosse stata… Respinse quell’immagine e continuò ad aggredire con selvaggia violenza la massiccia parete.

Il sole illuminò la foresta intrisa d’acqua e sconvolta dalla tempesta, rivelando il robot-maschio che procedeva instancabile lungo la riva del ruscello. Malgrado il pesante fardello che trasportava, adesso le sue gambe si muovevano veloci, e quando arrivava su qualche tratto sabbioso o di terreno coperto soltanto d’erba, i suoi passi si allungavano ancora di più; aveva fretta: si era baloccato anche troppo a lungo con le illusioni, in quella terra ostile.

Il ruscello giunse alla confluenza con un corso d’acqua più grande; il robot si fermò, e lasciò cadere il suo ingombrante fardello, aprendolo a metà. Gli bastarono pochi minuti, e si trovò a spingere sull’acqua una barca confezionata a regola d’arte coi pannelli di berillite. Vi sali dentro. Il piccolo generatore che aveva estratto dal microscopio elettronico ronzò sommesso e un getto d’acqua cominciò a schizzar via d’ambo i lati della barca; un propulsore rozzo ma efficace, come testimoniava la scia ribollente alle sue spalle. Anche se la barca appariva lenta al confronto col suo rapido passo sulla terraferma, non ci sarebbero state deviazioni o barriere invalicabili a ostacolare il suo cammino.

Le ore passarono e le ombre ripresero ad allungarsi, ma il nuovo ruscello continuava ad allargarsi, e le sue speranze crebbero, anche se guardava le rive con indifferenza: l’Eden non era qui, avrebbe dovuto viaggiare ancora chissà quanto per… Ma a una nuova curva, si rizzò a sedere con un sobbalzo e subito puntò con la barca verso riva, avendo osservato qualcosa di totalmente diverso rispetto al resto del paesaggio. Mentre tirava a riva la barca e si avvicinava, vide una grande buca beante nel terreno, che scendeva almeno a trenta metri di profondità e aveva un quarto di miglio di diametro, circondata da quelle che, ovviamente, erano rovine artificiali. Spezzoni metallici contorti spuntavano tra ammassi di cemento in equilibrio precario, frammisti a manufatti danneggiati al punto d’essere irriconoscibili. Un palo piegato fin quasi a spezzarsi in due, lì vicino, recava ancora un cartello.

Il robot grattò via ruggine e sporcizia e riuscì a leggere le lettere sbiadite:

BENVENUTI A HOGANVILLE. Abitanti 1876

Non significava niente per lui, ma le rovine lo affascinavano. Quello doveva essere stato un vecchio espediente di Satana. Una simile bruttura non poteva essere altro.

Scuotendo la testa fece ritorno all’imbarcazione, e proseguì veloce la sua corsa sull’acqua mentre spuntavano le stelle. S’imbatté in altre rovine, più estese e più difficili da vedere, poiché qui la distruzione era stata più completa e la foresta ne aveva fittamente invaso la maggior parte. Ebbe la certezza che erano rovine soltanto per la presenza di quelle grandi buche dal profilo frastagliato dentro le quali non cresceva neppure un filo d’erba. Mentre la notte passava, trovò altre buche più piccole, come se fossero stati distrutti, uno ad uno, degli oggetti isolati. Alla fine, rinunciò a risolvere l’enigma; non era una cosa che lo riguardasse.

Quando tornò a spuntare il mattino, quelle vaste rovine erano lontane dietro a lui, il fiume era ampio e la corrente assai forte, e ciò gii suggerì che il viaggio dovesse ormai volgere alla fine. Poi, gli giunse il debole odore salmastro dell’oceano, e lui lanciò un grido di gioia, frugando qua e là nel paesaggio alla ricerca d’un conveniente punto di osservazione.

Davanti a lui una bassa collina interrompeva il terreno pianeggiante, coronata da un cocuzzolo verde; il robot si avviò verso di essa. La barca scricchiolò sulla ghiaia, e lui balzò a terra mettendosi a correre sull’erba in direzione della collina, salendo fino in cima al cocuzzolo verdeggiante, rivestito di rampicanti. Da quella piccola altura era visibile tutto l’ultimo tratto del corso del fiume, che percorreva dritto, senza diramazioni, le ultime venticinque miglia prima di raggiungere il mare. Non era difficile immaginare l’Eden là, in quella terra dall’aspetto così piacevole.

Ma adesso, mentre stava per scendere, si accorse che la gibbosità dove era salito non faceva parte del resto della collina, come sulle prime gli era parso. Aveva lo stesso colore verde-grigio delle pareti di cemento della caverna da cui era uscito come un pulcino dall’uovo.

Ma sì, qui doveva esserci un’altra caverna, un uovo non ancora schiuso ma che già si stava rompendo, come la crepa sulla superficie accanto a lui stava a testimoniare. Per un attimo l’immagine d’un uovo che si stava aprendo lo sbigottì, poi si riscosse e si mise a strappare i rampicanti che coprivano la spaccatura. Si aprì un passaggio e vi si calò dentro, allungando la mano verso una piccola piastra inchiodata a poca distanza dalla crepa. Riuscì facilmente a staccarla: era un utensile ben misero, ma se Eva era intrappolata là dentro, bisognosa di aiuto per rompere il guscio, lui gliel’avrebbe dato.

«A voi che riuscirete a sopravvivere all’olocausto, io, Simon Ames…» Suo malgrado si sentì attratto da quelle parole incise, il suo sguardo fu costretto ad abbassarsi e a fissarle. «… dedico questo. Non è facile entrare, ma non dovete aspettarvi una facile eredità. Apritevi la strada con la forza, prendete quello che c’è dentro, usatelo! A voi che ne avete bisogno e faticherete per averlo, ho lasciato tutto il sapere che era…»

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