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Lester del Rey: Nelle tue mani

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Lester del Rey Nelle tue mani

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Rimase lì in silenzio, abbandonando ogni pretesa di divinità. La sua mente abdicò, lasciando che il sogno svanisse nel nulla; e non c’era niente che potesse prendere il suo posto, e dargli uno scopo e una ragione… soltanto il vuoto invece che un disegno preciso.

Scoraggiato, tolse le sbarre alla rozza gabbia e cominciò a spingere su per la galleria i maiali riluttanti fino alla foresta, fuori della caverna. Era un mattino fosco, il sole era nascosto, e s’intonava benissimo al suo umore quando l’ultimo maialetto scomparve tra la vegetazione lasciandolo doppiamente solo. Erano stati ben scarsi compagni, i maiali selvatici, ma avevano occupato il suo tempo, quelle piccole creature gli erano piaciute. Adesso, anche loro se n’erano andate.

Scoraggiato, lasciò cadere i suoi trecento chilogrammi sull’erba, fissando le nere nubi sopra di lui. Una formica si arrampicò incuriosita sopra il suo corpo, e lui la guardò senza interesse. Poi, anche la formica se ne andò.

«Adamo!» Il grido era giunto dalla foresta, squillante e irresistibile. «Adamo, vieni avanti!»

«È Dio!» Si rizzò di scatto, sulle sue membra meccaniche fattesi goffe e insicure. Nell’ora più buia del suo maggior bisogno, Dio era finalmente giunto! «Dio, eccomi!»

«Vieni avanti, Adamo! Adamo, vieni avanti…»

Con un grido selvaggio, il robot si precipitò come un lampo verso il bosco. Un pizzicore elettrico l’impregnava tutto. Non era più indesiderato, non era più un frammento smarrito nella tempesta. Dio era venuto a cercarlo. Continuò ad avanzare incespicando, inciampando sui rami, schiantando arbusti, incurante del fracasso che faceva; che Dio sapesse pure della sua ansia! Il richiamo giunse ancora una volta, adesso spostato su un lato, e lui deviò un poco la sua corsa, proseguendo coi suoi passi pesanti. «Eccomi, sto arrivando!»

Dio avrebbe alleviato le sue preoccupazioni, spiegandogli perché lui era così diverso dai maiali. Dio avrebbe saputo tutto questo. E poi ci sarebbe stata Eva… e non più solitudine! Avrebbe avuto qualche problema a tenerla lontana dall’albero della conoscenza, ma non gliene sarebbe importato!

Il richiamo lo raggiunse da una direzione ancora una volta diversa. Forse Dio non era soddisfatto di tutto il rumore che lui faceva. Il robot calmò il suo passo e venne avanti con reverenza. Intorno a lui gli uccelli cantavano, e adesso la chiamata gli giunse di nuovo, squillante e vicina. Si affrettò, sforzandosi di combinare la velocità col silenzio, malgrado il suo peso.

Questa volta l’intervallo fu più lungo, ma quando la chiamata si ripeté, era quasi sopra la sua testa. Si curvò e letteralmente strisciò fino all’antica quercia dalla quale il richiamo era giunto, incerto e pieno di timore, ma colmo d’una ardente aspettativa.

«Vieni avanti, Adamo, Adamo!» Il suono era direttamente sopra di lui, ma Dio non si manifestò di persona in maniera visibile. Lentamente, il robot ruotò la testa guardando in alto, attraverso i rami dell’albero. Là c’era soltanto un uccello… e dal suo becco dischiuso giunse di nuovo il richiamo: «Adamo, Adamo!»

Un mimo poliglotta: l’aveva già sentito imitare altri uccelli… e adesso stava imitando la sua voce e le sue parole! E lui, aveva seguito il suo richiamo attraverso la foresta nella speranza d’incontrare Dio! Lanciò un grido stridulo in direzione dell’uccello, la sua rabbia era così acuta che la creatura alata si affrettò a volar via dal ramo per appollaiarsi su un altro albero e allungare la testa verso di lui. «Dio?» chiese l’uccello con la sua stessa voce, poi passò a imitare il rauco richiamo d’una ghiandaia.

Il robot si accasciò contro l’albero, rifiutandosi di consentire che la speranza svanisse del tutto. Sapeva così poco di Dio. Non era possibile che Lui avesse usato l’uccello per chiamarlo fin lì? Quanto meno, quell’albero non era molto dissimile da quello sotto il quale Dio aveva fatto addormentare Adamo prima di creare Eva.

Prima il sonno, poi la venuta di Dio! Si stiracchiò, ben deciso in questo suo tentativo d’imitare il torpore dei maiali, respingendo i tentativi sciocchi della sua mente d’indovinare dove potessero trovarsi le sue costole. Fu una cosa lenta e difficile, ma insisté, tenace, riuscendo a ipnotizzare se stesso fino a intorpidirsi mentalmente; a poco a poco i rumori della foresta divennero un rivolo sottile nella sua mente. Poi, anche questo si acquietò.

Non aveva nessun modo per sapere quanto tempo fosse durato, ma d’un tratto si rizzò a sedere, stordito, al rombo d’un tuono, mentre un torrente di pioggia sferzante gli scrosciava, accecante, sugli occhi. Per un attimo si guardò il fianco, ma non vide nessuna cicatrice.

Una folgore colpi, avvampando, un albero lì vicino, facendogli piovere addosso una cascata di schegge. Questo, certo, non si accordava a quanto aveva visto nel film! Si alzò in piedi, tentennando, scrollando via un po’ di pioggia dalla faccia, e s’incamminò con passo incerto verso la caverna. Ancora una volta il lampo colpi, più vicino; allora accelerò il passo, e cominciò a correre. Il vento fustigava gli alberi, spezzandone qualcuno con selvaggia ferocia, e ci volle tutta l’energia dei suoi magneti per riuscire ad avanzare a dieci miglia all’ora, invece delle sue normali cinquanta. Una raffica più violenta lo colse impreparato, mandandolo a sbattere contro una roccia, con clangore di metallo. Ma non poteva fargli del male, e lui proseguì barcollando fino a quando non raggiunse l’ingresso, protetto da un basso argine, della sua galleria fangosa.

Al sicuro, dentro la sua caverna, si asciugò con una lampada a raggi infrarossi, seduto accanto all’imboccatura della galleria per studiare la furia selvaggia della burrasca. Certo, tutto quel furore non trovava posto nell’Eden, dove la rugiada inumidiva le foglie, la sera, sotto carezzevoli brezze musicali!

Annuì lentamente, rilassando i muscoli che serravano la mascella. Quello non poteva essere l’Eden, ed era nell’Eden che Dio l’aspettava. Non aveva importanza quale maligno incantesimo Satana avesse usato su di lui, per attirarlo fin là, derubandolo dei ricordi. Tutto quello che importava era tornare, e non avrebbe dovuto esser difficile, dal momento che il Giardino si stendeva tra i fiumi. Stanotte, finita la tempesta, sarebbe tornato là fuori e domattina avrebbe seguito il ruscello in mezzo alla foresta finché non l’avesse condotto là, dove Dio l’aspettava.

Con la fede di un bimbo, si voltò e, continuando a raffigurarsi in mente la sua creazione e quella di Eva, cominciò a strappare i sottili pannelli di berillite dai tavoli e dagli armadi del laboratorio. Fuori, la tempesta continuava a imperversare furiosa, ma lui non l’udiva più. Domani si sarebbe messo in viaggio verso casa! Questa parola era nebulosa, nella sua mente, come lo erano tutte le parole più belle, ma aveva un buon suono, sgombro da ogni concetto di solitudine, e gli piaceva.

Seicento lunghi anni si erano trascinati con interminabile lentezza, e perfino il duro pavimento di cemento era butterato da tutti quei secoli di andirivieni e di attesa. Il tempo aveva eroso tutte le sue speranze, tutti i progetti, tutte le congetture, e ora c’era soltanto una disperazione sorda, atona, troppo vecchia per poter mai esplodere in accessi di rabbia o addirittura pazzia. Il robot-femmina si accasciò immota sullo scavatore atomico, i suoi occhi fissavano, spenti, la cupola, tra le file dei libri, le bobine dei film. Inutili, ingombranti macchine stavano, coperte di polvere, qua e là sul pavimento. Là giaceva anche un piccone, e i suoi occhi lo contemplarono svogliati; un tempo, quando il dizionario le aveva mostrato la sua immagine, rivelandole il suo corpo, aveva creduto che fosse la chiave per fuggire, ma adesso era soltanto un altro simbolo di futilità.

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