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Lester del Rey: Nelle tue mani

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Lester del Rey Nelle tue mani

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Annui lentamente fra sé. Sì, lui aveva riposato là dentro, con quel film destinato, appunto, a ricordargli il suo progetto, mentre il mondo si preparava per Adamo. E ora, di nuovo sveglio, doveva uscir fuori e creare l’uomo a sua immagine! Ma prima di tutto, doveva eliminare il pericolo contro il quale il film l’aveva messo sull’avviso.

Si raddrizzò, incamminandosi con passo deciso. S’infilò nella galleria, e con energiche spinte rifece la strada verso l’esterno. Fuori, il sole splendeva ancora, e lui s’incamminò verso il disco luminoso attraverso la foresta dell’Eden, così mal tenuta. Il suo passo si fece furtivo, mentre si muoveva in silenzio nel sottobosco, come un grande folletto metallico, gli occhi che dardeggiavano tutt’intorno e le mani pronte a scattare con la velocità del fulmine.

Finalmente lo vide, arrotolato accanto a una grande roccia. Era più piccolo di quanto si era aspettato, soltanto due metri di nera e scagliosa flessuosità, ma la forma e la lingua biforcuta erano inequivocabili. Gli fu addosso in un movimento che apparve come una macchia confusa, tanto fu veloce, e un grido di esultanza; e quando si allontanò, l’oggetto senza vita sulla roccia aveva smesso per sempre di corrompere anche la più ingenua delle Eve.

Il sole del mattino trovò il robot chino su quello che fino a poco prima era stato un maiale selvatico, e un coltello che si muoveva rapido e preciso nella sua mano. Con delicatezza il robot aprì il cuore del maiale, studiando il funzionamento delle valvole. La vita, decise, era estremamente complicata, e fu colto da un dubbio. Nel film gli era parso facile! E tornò a chiedersi come mai lui conoscesse così bene il complesso ordine del firmamento, ma nulla di quest’altra sua creazione.

Infine, scacciò il dubbio, seppellì i resti del maiale selvatico, e prese posto fra le argille multicolori che aveva raccolto, muovendo con destrezza le dita mentre le impastava, modellandole in forma d’ossa per lo scheletro (quelle bianche), aggiungendovi poi l’argilla rossa per il cuore. I nervi e i capillari sanguigni erano troppo al di là delle sue possibilità, ma non poteva farci niente; d’altra parte, se era stato lui a creare quel gigantesco sole dal niente, Adamo avrebbe certo potuto prender vita dalla sua grossolana scultura.

Il sole salì più in alto, e i particolari si moltiplicarono. L’ultimo degli organi interni era stato completato, compreso il grumo grigio che era il cervello. E il robot cominciò a stendere la rossa guaina dei muscoli. Qui dovette riflettere più a lungo per adattare la struttura muscolare del maiale a gambe e braccia assai più lunghi, e a un torso pure diverso; ma la sua mente affrontò con tenacia tutti i problemi matematici, e infine terminò l’opera.

Inconsciamente, si mise a cantare a bassa voce, imitando gli uccelli, mentre le sue dita modellavano altra argilla, più pallida, per nascondere i muscoli e dare la sua liscia simmetria al corpo. Questo colore aveva dovuto immaginarselo, anche se aveva dedotto che la tinta scura delle labbra, nel film, era il rosso vivo del sangue che scorreva sotto di esse.

La luce del crepuscolo lo trovò ritto in piedi, intento ad approvare il suo lavoro, annuendo col capo. Sì, era una copia fedele dell’Adamo del film che aspettava soltanto l’alito della vita; e questo doveva venire da lui, esser parte delle forze che scorrevano attraverso i suoi nervi e il cervello metallici.

Collegò, delicatamente, dei fili alla testa e ai piedi del corpo d’argilla; poi aprì la propria piastra toracica per collegare l’altro capo dei cavi ai morsetti del suo generatore, imponendo con la sua volontà alla corrente di scorrer fuori da lui, dentro la figura che giaceva ai suoi piedi. E nel medesimo istante un’ondata di debolezza l’investi, minacciando di oscurare la sua coscienza, ma non si rincrebbe per quella perdita di energia. Il vapore esalò dalla figura distesa, avvolgendola allo stesso modo in cui la nebbia aveva coperto Adamo nel film, poi, lentamente, si dissolse, e lui interruppe il collegamento, concedendosi un attimo per riprendersi, mentre la corrente tornava a percorrere il suo corpo al massimo d’energia. Staccò quindi i fili, facendo attenzione, e li tirò indietro.

«Adamo!» L’ordine echeggiò attraverso la foresta, vibrante d’impazienza. «Adamo, alzati. Io, il tuo creatore, te lo ordino!»

Ma la figura giacque immobile, e adesso vide che su di essa si erano formate delle lunghe, vistose crepe, mentre il nobile sorriso del suo volto si era deformato, diventando un ghigno inverecondo. Non c’era alcun segno di vita! Era morto, come il suolo dal quale veniva.

Si accucciò su di esso, gemendo, ondeggiando avanti e indietro, e le sue dita cercarono di chiudere quelle orribili crepe, riuscendo soltanto a creare un guasto più grande. Alla fine si alzò, e prese a calpestarlo finché non lo ridusse a una chiazza multicolore sulla terra. Continuò a calpestare e a gemere mentre distruggeva il simbolo del suo fallimento. La luna lo guardava beffarda con una faccia saggia e cinica, e lui le lanciò un ululato misto di rabbia e d’angoscia, al quale rispose un gufo solitario che si interrogava sulla propria identità.

Un Dio impotente, o un Adamo senza Dio! Le cose erano andate troppo bene nel film, dove Adamo si alzava dalla polvere del suolo…

Ma il film era simbolico, e lui l’aveva preso alla lettera! E naturalmente aveva fallito. I maiali non erano polvere, ma complesse strutture colloidali, gelatinose. E essi ne sapevano più di lui, poiché ne aveva visti di appena nati, a dimostrazione che in qualche modo erano senz’altro capaci di trasmettersi l’un l’altro l’alito della vita.

D’improvviso, drizzò le spalle e tornò a incamminarsi dentro la foresta. Adamo si sarebbe levato da terra per alleviare la sua solitudine. I maiali conoscevano il segreto, e lui poteva impararlo; ciò che adesso gli serviva erano altri maiali, e non gli sarebbe stato difficile procurarseli.

Ma due settimane più tardi era un robot preoccupato che sedeva osservando i suoi maiali che mangiavano, ingordi e felici, il loro cibo. La vita, invece che rivelarsi più semplice, si era fatta più complicata. Il fluoroscopio e il microscopio elettronico, da lui riparato, gli avevano fatto veder molto, ma c’era sempre qualcosa che mancava. La vita pareva aver inizio soltanto dalla vita; e perfino le due cellule di partenza erano vive in qualche maniera strana che differiva dalla sua. Certo, la vita di un dio poteva esser diversa da quella animale, ma…

Con una scrollata di spalle lasciò perdere la metafisica e tornò al laboratorio, scansando i maialetti che gli camminavano fiduciosi tra i piedi. Lentamente estrasse l’ultimo ovulo dal fluido nutriente in cui l’aveva conservato, lo mise su un vetrino e l’osservò col microscopio ottico. Con un sottile filo di platino depositò qualche spermatozoo vicino all’ovulo. Le sue dita operavano sicure, attraverso i centesimi di millimetro necessari a metterli in posizione.

Aveva sviluppato la sua tecnica dopo molti fallimenti; ora, uno degli spermatozoi trovò l’ovulo e lo penetrò. Mentre osservava, quell’unica cellula rotonda cominciò ad allungarsi, a dividersi nel mezzo. Sì, questo sarebbe stato un successo! Prima ci furono due, poi quattro cellule; le sue mani agirono fulmineamente e con precisione estrema, mentre, all’interno del campo visivo del microscopio, sostituiva al vetrino una membrana sottile, dotata di minuscoli tubi che portavano l’ossigeno, il nutrimento, e minuscole quantità di ormoni per la stimolazione e il controllo grazie ai quali sperava di modellare a suo piacimento il nuovo essere vivente.

Adesso c’erano otto cellule, e lui attese febbrilmente che si portassero sulla membrana, per proseguire il loro sviluppo. Ma non lo fecero. Mentre guardava, un’ulteriore divisione ebbe inizio, ma si arrestò a mezzo; ancora una volta le cellule erano morte. Tutto il suo studio, il suo lavoro, erano stati futili, vani, ancora una volta.

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