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Connie Willis: Il raggio di Schwarzschild

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Connie Willis Il raggio di Schwarzschild

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Connie Willis

Il raggio di Schwarzschild

«Quando una stella collassa, in qualche modo è come se cadesse su se stessa.»

Travers curvò una mano a formare un semicerchio e poi vi infilò le dita dell’altra mano. «E a volte raggiunge un punto di non ritorno in cui la spinta gravitazionale prende il sopravvento sulle forze elettriche e nucleari, e quando raggiunge quel punto niente può impedirle di collassare. Diventa un buco nero.» Richiuse la mano a pugno. «E quel diametro critico, quel punto oltre il quale non c’è più ritorno, è chiamato raggio di Schwarzschild.» Travers fece una pausa, aspettando che dicessi qualcosa.

Era una settimana che mi veniva a trovare tutti i giorni; si metteva a sedere rigido su una delle mie sedie, un po’ a disagio in camìcia e cravatta a cui non era abituato, e mi parlava di buchi neri e relatività, anche se, prima di andare in pensione, all’università io insegnavo biologia, non fisica. Naturalmente qualcuno gli aveva detto che conoscevo Schwarzschild.

«Il raggio di Schwarzschild?» ripetei con la mia voce tremula da vecchio, come se non mi ricordassi nemmeno di averlo sentito mai nominare, e Travers assunse un’espressione disgustata. Avrebbe voluto che gli dicessi: «Il raggio di Schwarzschild! Ah, sì, ho prestato servizio con Karl Schwarzschild sul fronte russo nella prima guerra mondiale!». E che gli spiegassi come lui aveva formulato la sua teoria dei buchi neri mentre era nell’artiglieria, ma non avevo ancora deciso che cosa dirgli. «L’orizzonte degli eventi,» mi limitai a dire.

«Già. Gli hanno dato il nome di Schwarzschild perché fu lui a elaborare la teoria,» disse Travers, e mi fece venire in mente Muller e il suo gran parlare di teorie. Travers aveva la stessa età di Muller, gli stessi capelli biondi e ispidi e la stessa insaziabile curiosità, e forse proprio per quello gli permettevo di venirmi a trovare tutti i giorni, anche se era pericoloso farlo avvicinare così tanto.

«Ho messo a punto una teoria delle stelle,» dice Muller mentre ci scaldiamo le mani sulla stufa a olio Primus in modo che abbiano sensibilità sufficiente a tenere la valvola autoregolatrice senza far cadere il liquido. «Non sono globi di fuoco come affermano gli scienziati. Sono ghiacciate.»

«Come possiamo vederle se sono ghiacciate?» domando. Muller si offende se non discuto con lui. La discussione fa parte della teoria.

«Guarda la trasmittente!» dice, indicando l’apparecchio sventrato che giace sul tavolo. Ne vediamo la parte posteriore, e sul tubo di vetro della valvola si nota il riflesso rossastro della fiamma della stufa. «La luce è il riflesso sul ghiaccio della stella.»

«Un riflesso di che cosa?»

«Dei proiettili, naturalmente.»

Non gli dico che le stelle esistevano ancor prima che ci fosse questa guerra, perché Muller non saprebbe che cosa rispondere, e non ho nessuna voglia di distruggere la sua teoria; e poi non sono del tutto certo che ci sia stato un tempo in cui questa guerra non esisteva. Le bombe a stella sono sempre esplose sui crateri innevati della Terra di Nessuno, frantumandosi in una nebbiolina biancorossa, e forse la teoria di Muller è esatta.

«A questo punto,» disse Travers, «allo stato attuale, nessuna informazione può più essere trasmessa al di fuori del buco nero, perché la gravità è diventata molto forte, e così il collasso della stella appare ghiacciato al raggio di Schwarzschild.»

«Ghiacciato,» ripetei, pensando a Muller.

«Proprio così. Infatti i russi chiamano i buchi neri “stelle ghiacciate”. Lei è stato sul fronte russo, vero?»

«Che cosa?»

«Nella prima guerra mondiale.»

«Ma la stella non si ghiaccia realmente,» affermai. «Continua a collassare.»

«Già, è così,» rispose Travers. «Continua a col lassare su se stessa fino a quando gli stessi atomi vengono privati dei loro elettroni e non resta niente a parte ciò che chiamano una nuda singolarità, ma noi non possiamo vedere oltre il raggio di Schwarzschild. e nessuno all’interno di un buco nero ci può dire cosa succede là dentro perché non può inviare messaggi, e così nessuno può sapere quello che avviene all’interno di un buco nero.»

«Lo so,» dissi, ma lui non mi sentì.

Si chinò in avanti. «Com’era al fronte?»

Fa così freddo che possiamo lavorare alla trasmittente solo pochi minuti per volta prima che le nostre mani si irrigidiscano e diventino insensibili, e abbiamo paura di far cadere il liquido dalla valvola. Muller avvicina i guanti alla stufa a olio e poi li indossa. Io sprofondo le mani nelle tasche irrigidite dal ghiaccio.

Stiamo aggiustando l’apparecchio radiotrasmittente. Eisner, che consegnava i messaggi ai diversi settori, è andato a finire al fronte quando non è più riuscito a far funzionare la sua motocicletta. Se non riusciamo a sistemare la trasmittente, non saremo più dei radiotelegrafisti e diventeremo soldati, e ci sbatteranno al fronte.

Ci siamo già molto vicini. Se non nevicasse potremmo vedere il filo spinato e la neve butterata della Terra di Nessuno, e i grossi secchi di carbone che i russi qualche volta calano nelle trincee di collegamento. Un proiettile ha colpito la nostra baracca due settimane fa. Ci troviamo davanti alle linee della nostra artiglieria, e ogni tanto ci piove addosso anche qualche proiettile dei nostri cannoni, perché i fusti sono consumati. Ma non siamo al fronte, e proteggiamo la valvola autoregolatrice a costo della nostra vita.

«Ieri sera hanno inviato l’unità di Eisner a posare del filo spinato,» dice Muller, «e non sono ancora tornati. Ho una teoria su quello che gli è successo.»

«È arrivata la posta?» chiedo, strofinandomi gli occhi doloranti e tornando subito dopo a infilarmi le mani in tasca. Devo procurarmi dei guanti nuovi, ma per il momento il furiere non ne ha a disposizione. Ho scritto tre volte a mia madre perché me ne lavori un paio a maglia, ma ancora non me li ha fatti avere.

«Ho una teoria sull’unità di Eisner,» insiste cocciuto. «I russi hanno un magnete che li ha attirati tutti verso il fronte.»

«I magneti attirano il ferro, non le persone,» dico.

Ho una teoria sulle teorie di Muller. Le trincee di collegamento sono piene di oggetti che gli uomini diretti al fronte hanno gettato via: borracce d’acqua, zaini e baionette. Qualche volta Hans e io ci siamo domandati come mai si fossero liberati di oggetti così importanti.

«Forse erano troppo carichi,» dicevo io, anche se questo non spiegava la presenza di stivali e baionette.

«Forse sapevano che stavano per morire,» diceva Hans mentre raccoglieva un elmetto.

Io cercavo di tirarlo su di morale. «Ieri, quando sono andato dal furiere, mi sono cascati i guanti dalla tasca. Non sono più riuscito a trovarli. Devono essere da qualche parte, dentro questa trincea.»

«Sì,» diceva lui, rigirando l’elmetto fra le mani. «Forse mentre ci si avvicina al fronte, queste cose gli sono semplicemente cadute giù.»

La mia teoria è che ciò che accade alle borracce d’acqua e agli elmetti e alle baionette è la stessa cosa che è successa a Muller. Prima della guerra era studente universitario, ma la sua conoscenza scientifica e la sua intelligenza gli sono cadute di dosso, e adesso che siamo così vicini al fronte gli sono rimaste solo le sue teorie. E la sua curiosità, che è una cosa pericolosa da conservare.

«Esattamente. I magneti attirano il ferro, e infatti loro stavano trasportando del filo spinato!» afferma trionfante. «E così sono stati attratti dal magnete.»

Appoggio le mani praticamente sopra la stufa e le strofino, cercando di sciogliere l’intorpidimento. «Sarà meglio che rimettiamo la valvola nella trasmittente, altrimenti questo tuo magnete risucchierà anche quella verso il fronte.»

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