Connie Willis - Il raggio di Schwarzschild
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- Название:Il raggio di Schwarzschild
- Автор:
- Издательство:Fanucci
- Жанр:
- Год:1998
- Город:Roma
- ISBN:88-347-0623-4
- Рейтинг книги:5 / 5. Голосов: 1
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«Ho un messaggio da consegnargli.»
Ruggisce un pezzo da otto, e ci cade addosso altra terra. L’uomo alza il braccio per togliersi la terra dalla spalla. La manica dell’uniforme è stata fatta a brandelli. Tutto il dorso della mano che ha sollevato e il lato del braccio sono ricoperti di piaghe rosse piene di pus. Lo osservo di nuovo in faccia. Le piaghe sui baffi e intorno al naso e la bocca si sono seccate e hanno fatto la crosta. Escoriazioni. Bolle in suppurazione. Il cannone ruggisce di nuovo e altra terra gli cade sulle mani spellate.
«Ho un messaggio da consegnargli,» ripeto, ritraendomi. Infilo la mano nella tasca della giacca per fargli vedere il messaggio, e invece ne viene fuori la lettera. «C’era una lettera per lei, tenente Schwarzschild.» Gliela passo tenendola per un angolo in modo che non mi tocchi quando la prende.
Mi si avvicina per prendere la lettera, contraendo i muscoli della mascella, e penso con orrore che deve avere delle piaghe anche sulle gambe. «Chi è il mittente?» dice. «Ah, Herr professor Einstein. Bene,» e la gira. Mette le dita sul lembo per aprirla e urla di dolore. La lettera gli cade in terra.
«Me la leggerebbe lei?» chiede, e crolla sulla sedia, appoggiando la testa contro il petto. Vedo che anche le unghie sono piagate.
Le mie mani non sentono più nulla. Prendo la busta dagli angoli e la giro. Un po’ di pelle del suo dito è rimasta attaccata al lembo. Mi allontano dal tavolo. «Devo trovare il dottore, è un’emergenza.»
«Non lo troverebbe,» dice. Il sangue gli gocciola dalla punta del dito scendendo giù fino alla piega sull’unghia. «È andato al fronte.»
«Che?» domando, continuando ad arretrare finché arrivo alla coperta. «Non la capisco.»
«È andato al fronte,» mi spiega, più lentamente, e stavolta riesco a decifrare le parole, ma non hanno senso. Come fa il dottore a stare al fronte? È questo il fronte.
Spinge la candela dalla mia parte. «Le ordino di leggermi la lettera.»
Non sento più niente nelle dita. Apro la busta da un lato, quasi strappando la lettera in due. È una lettera lunga, piena di equazioni e cifre, ma le parole sono deformate e si leggono a fatica. «“Mio stimato collega! Ho letto la sua dissertazione con estremo interesse. Non mi aspettavo che si potesse formulare la soluzione esatta del problema in modo così semplice. La trattazione analitica del problema mi sembra splendida. Giovedì prossimo presenterò il lavoro all’Accademia con diversi interventi chiarificatori!”»
«Formulata in modo così semplice,» dice Schwarzschild, come se stesse soffrendo. «Basta così. Metta giù la lettera. Finisco di leggerla da solo.»
Appoggio la lettera sul tavolo davanti a lui, e un attimo dopo sono giù in trincea che corro nel buio con il suono del fronte che mi circonda, un ruggito che scuote la terra. Alla prima curva, Muller mi afferra un braccio e mi blocca. «Che ci fai qui?» grido. «Torna indietro! Indietro!»
«Indietro?» dice. «Il fronte è da quella parte.» Indica la direzione da cui è venuto. Ma il fronte non è da quella parte. È dietro di me, nel quartier generale dell’artiglieria. «Ti avevo detto che ci sarebbe stato un bombardamento stanotte. Hai visto il dottore? Gli hai dato il messaggio? Che ha detto?»
«Dunque lei ha davvero tenuto in mano la lettera di Einstein?» chiese Travers. «Dev’essere stato eccitante! Solo due mesi dopo Einstein rese pubblica la sua teoria della relatività generale. E anni prima che ci si rendesse conto dell’esistenza dei buchi neri. Quando è stato esattamente?» Tirò fuori un quadernetto e iniziò a scribacchiarci sopra degli appunti. «Mio stimato collega…» borbottò fra sé e sé. «Formulata in modo così semplice. Questa roba è grande. Cioè, sono stato mesi e mesi alla ricerca di materiale su Schwarzschild per il mio saggio, ma praticamente non c’è niente su di lui. Immagino a causa della guerra.»
«Nessuna informazione esce da un buco nero una volta oltrepassato il raggio di Schwarzschild,» dissi.
«Ehi, forte!» esclamò, scarabocchiando di nuovo. «Posso utilizzarlo nella mia ricerca?»
Adesso sono io quello che siede ininterrottamente davanti alla trasmittente a spedire messaggi alla Croce Rossa, al mio professore a Jena, al dottor Einstein. Mi si sono congelati l’indice e il pollice della mano destra e devo battere sui tasti con la sinistra. Ma non parte niente, e io devo assolutamente riuscirci. È necessario che qualcuno mi dica il nome della malattia di Schwarzschild.
«Ho una teoria,» dice Muller. «Gli ebrei hanno preso il potere e hanno firmato un trattato coi russi. Siamo totalmente tagliati fuori.»
«Vado a vedere se c’è posta,» dico, in modo da non dover più ascoltare altre sue teorie, ma il dottore mi ferma mentre sto uscendo dal rifugio.
Gli riferisco il messaggio. «Impetigine!» urla il dottore. «L’hai visto! Ti sembrava impetigine?»
Scuoto la testa, dato che è impossibile dirgli ciò che mi sembrava.
«Che sintomi presenta?» chiede Muller, ardente di curiosità. Non gli ho parlato di Schwarzschild. Ho paura che se gliene parlassi diventerebbe solo più curioso e insisterebbe per andare al fronte a vederlo di persona.
«Fammi dare una controllata ai tuoi occhi,» dice il dottore nella sua bella voce rassicurante. Vorrei tanto che chiedesse a Muller di andare a prendere un’altra lampada per potergli domandare come sta Schwarzschild, ma si è portato una candela. Me la tiene così vicina al viso che riesco a vedere solo la fiamma rossa.
«È peggiorato il tenente Schwarzschild? Che sintomi presenta?» chiede Muller, piegandosi in avanti.
I sintomi sono crateri di proiettili, penso. Mi pento di non averne fatto parola con Muller perché adesso è solo più incuriosito di prima. Fino a ora gli ho detto tutto, anche come è morto Hans quando hanno colpito la baracca della trasmittente, come ha appoggiato delicatamente la valvola autoregolatrice sopra la trasmittente prima di provare a espellere tossendo quello che gli rimaneva del petto e prenderlo con le mani. Ma questo non glielo posso dire.
«Quali sono i suoi sintomi?» insiste Muller, con il naso quasi sulla fiamma, ma il dottore gli volta le spalle come se non lo sentisse e spegne la candela. Il dottore toglie la fasciatura e mi dà un’occhiata alle dita. Sono gonfie e rosse. Muller fa capolino da dietro le spalle del dottore. «Ho una teoria sulla malattia del tenente Schwarzschild,» dice.
«Sta’ zitto,» dico. «Ne ho abbastanza delle tue stupide teorie,» e non mi importa nemmeno del suo sguardo offeso e di come se ne torni a sedere vicino alla trasmittente. Perché adesso ce l’ho io una teoria, ed è molto più terribile di qualunque cosa Muller possa immaginarsi.
Tutti noi, Muller e la recluta che tenta di rimettere insieme la motocicletta di Eisner e forse anche il dottore con la voce pacata da capezzale, abbiamo paura del fronte. Ma questa paura non è completa, perché al suo interno giace inespressa la convinzione che il fronte sia qualcosa di separato da noi stessi, qualcosa dal quale ci si può tenere a distanza occupandosi della trasmittente o aggiustando la motocicletta, qualcosa cui possiamo sopravvivere schiacciando il volto nella terra ghiacciata, e anche qualcosa da cui possiamo fuggire facendoci riformare.
Ma il fronte non è separato. È dentro Schwarzschild, e i sintomi che ho comunicato quando ho spedito il messaggio all’esterno, escoriazioni e bolle in suppurazione, non sono proprio il suo problema principale. Le lesioni sulla pelle sono solo il filo spinato e le trincee di collegamento e i crateri da proiettili di un fronte che sta da qualche parte dentro di lui.
Il dottore mi applica una nuova fasciatura di garza sulla mano. «Ho provato a far riformare Schwarzschild,» dice, e Muller lo osserva, sbalordito. «Le linee di rifornimento sono bloccate dalla neve.»
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