«Schwarzschild?» dico. Non risponde, ma so che è ancora vivo. Il suo corpo scotta come la stufa. La mia mano è sotto di lui e provo a spostarla, inutilmente. La terra cade come neve, accumulandosi intorno a noi. L’oscurità si colora di rosso per un po’, poi non vedo nemmeno quella.
«Ho una teoria,» dice Muller con una voce così priva di curiosità che potrebbe essere la mia. «È la fine del mondo.»
«È stato in seguito a ciò che Schwarzschild fu congedato per malattia?» chiese Travers. «O riformato, o come dite voi tedeschi? Be’, sì, per forza, visto che è morto a marzo. Che ne è stato di Muller?»
Avevo sperato che se ne andasse via dopo avergli detto quello che era successo a Schwarzschild, ma non aveva fatto alcuna mossa per andarsene. «Muller è stato riformato con un braccio rotto. È diventato uno scienziato.»
«Come lei.» Aprì di nuovo il quadernetto. «In seguito ha più rivisto Schwarzschild?»
La domanda è insensata.
«Dopo essere usciti da lì? Prima della sua morte?»
Apparentemente ci vuole molto tempo perché le sue parole mi raggiungano. Il messaggio si piega e si distorce spostandosi verso il rosso, e quasi non riesco a distinguerlo. «No,» rispondo, benché sia una bugia.
Travers scarabocchia. «Le sono molto grato di tutto, dottor Rottschieben. Sono sempre stato incuriosito da Schwarzschild, e ora che mi ha raccontato tutta questa storia, lo sono ancora di più,» dice Travers. I messaggi in arrivo sono distorti dalla bufera gravitazionale e trasformati in qualcosa di assolutamente diverso da un discorso. «Se mi volesse aiutare, mi piacerebbe scrivere la tesi su di lui.»
Vai. Vai via. «Era una bugia,» dico. «Non ho mai conosciuto Schwarzschild. L’ho visto una volta, da lontano… come suo osservatore fisso.»
Travers alza lo sguardo dai suoi appunti con aria speranzosa, come se ancora aspettasse la mia risposta.
«Schwarzschild non è nemmeno stato mai in Russia,» dico mentendo. «Ha passato tutto l’inverno in ospedale a Göttingen. Le ho mentito. Era solo un problema ipotetico.»
Aspetta, con la matita pronta.
«Non può rimanere là!» grido. «Deve andarsene. Non c’è una distanza di sicurezza alla quale un osservatore fisso si può tenere senza venire risucchiato, e una volta dentro il raggio di Schwarzschild, non c’è via di uscita. Ma non capisce? Siamo ancora là!»
Siamo ancora là, intrappolati nelle trincee del fronte russo, mentre la stella morente si estingue, scendendo a spirale verso quel centro dove il tempo cessa di esistere, dove ogni cosa cessa di esistere a parte la nuda singolarità che in qualche modo è Schwarzschild.
Muller tenta di tirare fuori dalla terra la trasmittente con il braccio rotto per inviare un messaggio che nessuno ascolterà: «Aiuto! Aiuto!», e io mi dibatto per liberarmi le mani che, nonostante il calore di Schwarzschild, sono tanto fredde che non le sento più, e proprio al centro c’è Schwarzschild che si estingue, il buco nero dentro di lui che lo fa implodere cellula dopo cellula, trascinandolo nell’oscurità, e noi con lui.
«È una trappola!» grido a Travers dal centro, e il messaggio lotta per uscire, tornando poi indietro.
«Mi domando come abbia fatto ad arrivarci.» dice Travers, e adesso lo sento distintamente. «Voglio dire, si può immaginare di dover elaborare qualcosa come la teoria dei buchi neri nel bel mezzo di una guerra e mentre si è affetti da una malattia mortale? E ci pensi un po’, quando scoprì la teoria non aveva alcuna idea dell’esistenza dei buchi neri.»