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Connie Willis: Il raggio di Schwarzschild

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Connie Willis Il raggio di Schwarzschild

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«Abbiamo spedito dei messaggi,» dissi. «Ho scritto a mia madre per chiederle di lavorarmi a maglia un paio di guanti.»

Ci sono ancora problemi con la trasmittente. Abbiamo ricevuto un solo messaggio in due settimane. Diceva: «La resistenza russa sta cedendo,» e c’era così tanta elettricità statica che non abbiamo capito il resto. Abbiamo smontato due volte la trasmittente, pezzo per pezzo. La prima volta abbiamo trovato un cavo staccato, ma la seconda niente. Se ci fosse Hans, troverebbe subito il problema.

«Ho una teoria sulla trasmittente,» dice Muller. Ha elaborato dieci teorie in altrettanti giorni: il magnete dei russi sta risucchiando i nostri segnali nella sua direzione; le luci settentrionali, che si sono spostate inquiete all’orizzonte, creano una cortina che blocca i segnali della trasmittente; la resistenza russa non sta cedendo affatto. Ci stanno attirando sempre più in una trappola.

Dico: «Ci provo ancora. Forse il problema si è risolto,» e mi metto le cuffie in modo da non dover ascoltare la sua nuova teoria. Riesco solo a sentire un ruggito assordante che mi sembra proprio il rumore del fronte.

Tiro fuori il foglio di carta piegato che mi ha dato il dottor Funkenheld e lo appoggio sulla trasmittente. Viene quasi tutte le sere a vedere se ho ricevuto risposte al suo messaggio, e io mi tolgo le cuffie e gli faccio ascoltare l’elettricità statica. Gli dico che non possiamo collegarci, e benché questo sia è vero non è il motivo reale per cui non ho spedito il messaggio. Ho paura che lo scopra il comandante. Ho paura che mi mandino al fronte.

Ho raggiunto un compromesso scrivendo una lettera al professore con cui ho studiato medicina a Jena, ma ancora non mi ha risposto, quindi devo continuare a fingere col dottore.

«Non ce n’è bisogno,» dice Muller. Si siede sulla trasmittente, con una gamba penzoloni. Prende il foglietto con i sintomi scritti sopra e lo avvicina alla fiamma della stufa. Tento di afferrarla ma ha già preso fuoco. «L’ho inviato io per te.»

«Non ci credo. Non è mai uscito nulla da qua dentro.»

«Non hai notato che le luci settentrionali non sono apparse ieri sera?»

Non l’avevo notato. La pomata che mi ha dato il dottore mi fa vedere tutto rosso di notte, e non credo alle teorie di Muller. «E non esce niente in questo momento,» dico, e gli passo le cuffie per fargli sentire il rumore delle scariche elettriche. Ascolta, ancora dondolando la gamba. «Ci inguaierai tutti e due, perché l’hai fatto?»

«Ero curioso.» Se ci mandano al fronte, la sua curiosità ci farà ammazzare. Smonterebbe una mina per vedere come funziona. «Non possiamo cacciarci nei guai finché si tratta di messaggi militari. Ho detto che il comandante aveva paura che i russi stessero usando un gas velenoso.» Continua a oscillare la gamba e sogghigna perché adesso sono io quello curioso.

«E allora, ti hanno dato una risposta?»

«Sì,» dice con tono esasperante, e si mette le cuffie. «Non è un gas velenoso.»

Alzo le spalle come se non mi importi nulla di ricevere una risposta. Mi metto il berretto e la sciarpa che mi ha lavorato mia madre e apro la porta. «Vado a vedere se è arrivata posta. Forse c’è una lettera del mio professore.»

«Natura della malattia sconosciuta,» urla Muller contro la violenza improvvisa della neve. «Forse impetigine o scompenso ghiandolare.»

Gli restituisco una sorriso fiacco e dico: «Se c’è un pacco da parte di mia madre, ti regalo metà di quello che c’è dentro.»

«Anche se ci fossero i guanti?»

«No, i guanti no,» rispondo, e vado a cercare il dottore.

Al posto di medicazione mi dicono che è andato a visitare Schwarzschild e mi indirizzano verso il quartier generale del corpo d’artiglieria. Non è tanto lontano, ma nevica e le mie mani sono già ghiacciate. Vado dal furiere e gli chiedo se è arrivata posta.

C’è una nuova recluta, che tenta di aggiustare la motocicletta di Eisner. Tutti i pezzi sono in terra, sparsi in cerchio intorno a lui. Indica un sacco di tela e dice: «È tutta la posta che c’è. Sfogliatela da solo.»

Della neve è entrata nel sacco e si è sciolta. L’inchiostro sulle buste si è stinto; le osservo da vicino, cercando di leggerne i nomi. Mi cominciano a far male gli occhi. Non c’è un pacco di mia madre o una lettera del mio professore, ma c’è una lettera per il luogotenente Schwarzschild. Il mittente è un “dottore.” Forse ha scritto lui stesso a un dottore.

«Porto un messaggio al quartier generale dell’artiglieria,» dico, mostrando la lettera alla recluta. «Consegno anche questa.» La recluta annuisce e continua a lavorare.

Nel frattempo si è fatto scuro, e nevica più fitto. Affondo le mani nelle tasche congelate della giacca e mi dirigo verso il quartier generale dell’artiglieria uscendo dalla parte posteriore. È buio pesto nelle trincee di comunicazione e il vento fa roteare la neve incanalandola ululante dentro di esse. Mi tolgo la sciarpa e me l’avvolgo attorno alle mani come un manicotto da donna.

Una striscia di rosso si muove inquieta all’orizzonte, ma non so se sia il fronte o le luci settentrionali di Muller, e non ci sono esplosioni che mi possano guidare. Siamo a corto di proiettili, per cui di solito non apriamo il fuoco prima delle nove. I russi cominciano ancora più tardi. A volte sento il suono delle mitragliatrici che fanno fuoco, ma viene distorto dalla neve e dal vento, e non potrei dire da che parte proviene.

Per quello che mi ricordo, la trincea di comunicazione sembra più stretta e profonda di quando io e Hans portammo su la trasmittente per la prima volta. Ci impiego molto più del previsto per giungere alla ramificazione che mi condurrà a nord verso il quartier generale. Il fronte si è andato ritirando, i depositi di munizioni, gli alloggi e gli ospedali di smistamento si sono avvicinati sempre più dietro a noi. Il quartier generale dell’artiglieria è stato spostato dal villaggio in superficie a un rifugio sotterraneo vicino alla linea dell’artiglieria, nemmeno un chilometro alle nostre spalle. Sta per cominciare il fuoco notturno. Sento un brontolio basso, come un tuono.

Sembra che il ruggito sia davanti a me, mi fermo e mi guardo intorno, chiedendomi se per caso non mi sia girato su me stesso, benché non abbia abbandonato le trincee. Riparto di nuovo, e quasi subito vedo la ramificazione e il quartier generale.

Non c’è porta, solo una coperta che chiude l’entrata, tolgo le mani dal manicotto e mi piego per infilarmi dentro a un buco piccolo come una tana di lepre, con il soffitto di terra sorretto da travi così basse che devo stare sempre curvo. Ora che sono uscito dal ruggito della neve, il suono del fronte si scinde nello scoppio singolo di un pezzo da quattro, il lamento di una granata illuminante, e al di sotto il crepitio quasi ininterrotto delle mitragliatrici. Le trincee devono essere meno profonde qui. Io e Muller non riusciamo quasi a sentire il fronte dalla baracca della trasmittente.

C’è un uomo seduto a un tavolo sghembo sul quale sono sparsi libri e fogli di carta. Sul tavolo c’è una candela con un tubo di vetro rosso, o forse solo a me sembra tale. Qualunque cosa nel rifugio, anche l’uomo, mi sembra vagamente rossa. Indossa un’uniforme senza giacca e guanti con le dita tagliate, ma non c’è nessuna stufa. Mi si sono già congelate le mani.

Un mortaio da trincea ruggisce, e zolle di terra ghiacciata si staccano dal soffitto franando sul tavolo a ciottoli. L’uomo spazza via la terra dalle carte e alza lo sguardo.

«Cerco il dottor Funkenheld,» dico.

«Non c’è.» Si alza in piedi e gira intorno al tavolo, con movimenti rigidi, come un vecchio, sebbene non sembri aver superato i quaranta. Porta i baffi, e la sua faccia mi sembra sporca nella luce rossa.

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