— E tu sei Roan. E un roano è un cavallo, con il vento nella criniera e il tuono negli zoccoli, dolce di muso, selvatico negli occhi, tutto coraggio e velocità.
A Roan parve il ritornello di una canzone, e tuttavia si adattava bene alla voce… a quella di lei. Batté i piedi al suolo per far schizzare via l’acqua dalle scarpe, e quasi nitrì deliziato al pensiero del tuono nei suoi piedi. Lei lo prese di nuovo per mano e corsero giù lungo il versante dell’altura. Più avanti il coro finì in uno scroscio di risa divertite.
— Chi sono? — la interrogò lui.
— Vedrai. Eccoli… laggiù!
Dove le collinette confinavano con la foresta c’era un laghetto, chiaro e profondo. Sotto gli alberi e su per il versante erano annidate delle piccole costruzioni. Avevano pareti di tronchi e tetti di fibre vegetali. Erano basse, ampie, e sembravano parte stessa delle colline e dei boschi. Nella radura fra il versante e la foresta, accanto al laghetto, c’era una lunga tavola attorno alla quale sedeva la gente che Roan aveva sentito cantare. Lo capì dal suono delle loro risate.
— Io non… non posso! — rantolò miseramente.
— Perché? Cosa vedi di cui aver paura? — domandò Fiore.
— Ma non hanno alcun pudore!
— Ci sono soltanto due cose davvero indecenti: la paura di se stessi e la corruzione. E qui non vedrai nulla di questo. Guardali.
— Tutte quelle braccia e quelle gambe — mormorò lui. E i colori… un uomo rosso e verde, una donna azzurra… e stanno mangiando.
— Un abito arlecchinato e un altro azzurro. È bello indossare vesti colorate e stare insieme a tavola.
— Ci sono cose che uno non si sognerebbe mai di fare.
— Oh, no! Non c’è nulla che ti sia proibito sognare. Su, andiamo da loro.
Roan la seguì fin sul prato. L’intera tavolata gli diede un caldo benvenuto.
Al tramonto del secondo giorno Roan e Fiore s’incamminarono in un’ombrosa radura della boscaglia. Gli indumenti da letto del giovane erano stropicciati e malconci, perché non si adattavano alle attività manuali all’aperto e lui s’era rifiutato di levarseli. Tuttavia non gli importava degli strappi e delle macchie, visto che nessun altro ci badava. Le scarpe da letto erano andate in pezzi, ma lui sentiva che se gli avessero ordinato di non poggiare più i piedi sull’erba o sulla sabbia sarebbe morto. La Terra gli appariva ora ben più di un semplice posto in cui dislocare città precostruite. Aveva lavorato fino a ferirsi le mani, riso fino alle lacrime, dormito fino a svegliarsi fresco e pieno d’energia. Aveva aiutato a segare legna, aveva costruito, pescato, cantato. Una sorpresa dopo l’altra, e la più grande di tutte: i bambini.
Non aveva mai visto bambini di quell’età. Né aveva mai saputo da dove venissero, salvo il fatto che a dodici anni lasciavano il brefotrofio per essere assegnati ciascuno a una famiglia. Non sapeva in che modo potessero nascere. Ciò che sapeva era che ogni bambino era educato in vista del posto che avrebbe dovuto occupare nella sua Famiglia e nella Stasi, e che in quel periodo dell’esistenza lui non aveva fatto che apprendere come muoversi, come parlare, come lavorare e come pensare. A dodici anni un bambino veniva inserito al suo posto in una casa, e poiché non vi trovava molte differenze con il brefotrofio cui era abituato, quanto accadeva poi gli riusciva gradito non tanto grazie all’educazione paterna quanto a quella impartitagli da una squadra di specialisti.
Ogni Famiglia aveva un figlio maschio, una figlia femmina, un incarico ereditario, ambizioni e scopi ugualmente propri ed ereditari. Era a quel modo che l’economia poteva essere tenuta sotto controllo e in perpetuo equilibrio. Era a quel modo che la società poteva crescere i giovani e dar loro la sicurezza di vita.
Ma lì, in quel sogno…
Pargoletti vocianti che si cacciavano dappertutto, prendendosi una scoppola, bruciandosi le dita, e bambini e bambine che si tuffavano senza nulla addosso nel laghetto. Si picchiavano, e più tardi li si vedeva ridere insieme. E il tutto mentre gli adulti sudavano sul lavoro, imprecavano, cantavano, e non nascondevano né la tristezza né l’allegria. Era una comunità disordinata e vivace, fatta per gente forte che sapeva divertirsi e non aveva paura quand’era costretta a preoccuparsi. Era un posto barbaro e affascinante.
E quella gente aveva un potere, quel potere… perché ogni tanto Roan li aveva visti fare le stesse cose di cui era stata capace Fiore. Sembravano avere qualcosa di simile al transplat, dato che ricevevano ogni cosa dovunque volevano riceverla. Potevano allungare una mano nel niente e tirarne fuori un pezzo di pane, un utensile o un libro. Un uomo poteva tendere l’orecchio di lontano verso casa e sapere cosa gli stava cucinando sua moglie (mangiavano insieme, anche se si appartavano per altre funzioni corporali) o sentire una nuova canzone cantata chissà dove, o venire a sapere le ultime novità su qualcosa che lo interessava.
Sembravano abbastanza propensi a spiegargli come tutto ciò era possibile, ma le sue domande non lo condussero a niente di concreto. Era come se gli fosse occorsa una nuova lingua, o forse un nuovo modo di pensare, prima che potesse assorbirne soltanto l’essenza. E nonostante i loro poteri avevano le mani piene di calli. Usavano fuochi di legna e mangiavano ciò che dava la terra in cui vivevano. La vita attiva era il fattore che li manteneva allegri e in buona forma fisica; non permettevano che il potere Psi trasformasse, come un cancro, le loro necessità in vizi.
Così Roan s’avviò nel crepuscolo, con Fiore al suo fianco, riflettendo su tutte quelle cose e cercando di dar loro una forma che gli permettesse di capirle. — Ma naturalmente tutto questo non è reale — disse all’improvviso.
— Solo un sogno — annuì Fiore.
— Mi sveglierò.
— Molto presto. — Lei rise e lo prese per mano. — Non fare quella faccia così triste; non saremo mai troppo lontani da te.
Roan non riuscì a ridere con lei. — Lo so, ma sento che questo è… non ho le parole, Fiore. Non so come dirlo.
— Allora non provarci. Non ancora.
Prima di rendersene conto Roan l’aveva afferrata per le spalle. — Fiore, ti prego… lasciami restare qui.
Lei si contorse. — Non rendermi triste — mormorò.
— Perché non posso? Perché?
— Perché questo è il tuo sogno, non il mio.
— Non voglio perderti! Ti terrò stretta a me e non mi sveglierò! — esclamò. Ma un attimo dopo cadde in avanti, abbracciato al nulla. Fiore lo fissò con calma da dieci passi di distanza.
— Non rendermi triste — gli disse ancora. — Mi fa male respingerti a questo modo.
Lentamente lui si trasse in piedi, tese una mano verso la ragazza e borbottò, di malumore: — Va bene. Non voglio rovinare tutto.
Nelle prime ombre della sera tornarono in silenzio verso il lago, dove i raggi del sole insinuandosi fra le colline spargevano ancora chiazze di luce vivida.
— Fra quanto mi sveglierò? — chiese, sentendo che non poteva far altro.
— Appena sarà il momento — disse lei. Gli lasciò la mano, intrecciò il braccio al suo e gliela riprese. Uscirono nella luce della riva erbosa.
Roan lasciò vagare lo sguardo sulla spianata e sulle abitazioni, cercando di vedere il luogo come l’aveva visto quando ancora non gli era così familiare. Ma era impossibile. Lì davanti a lui c’era la pentola che avevano usato per fare lo zucchero d’acero, e gli parve di rivederla bollire. Rivide l’avidità con cui i cani s’erano gettati alla rincorsa dei pezzi di zucchero caramellato, abbaiando, uggiolando, e tornando freneticamente indietro per averne ancora. E più in là c’era un campo su cui riposava ancora in una crosta bianca un ricordo dell’ultima nevicata di primavera. C’era la palude erbosa, dove le anatre dal collare nero e dalle ali di madreperla riposavano nei loro nidi. E c’era…
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