Theodore Sturgeon - Nonnina non fa la calza

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Nonnina non fa la calza: краткое содержание, описание и аннотация

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Mai troppo rimpianto, Theodore Sturgeon era uno dei pochi autori di cui la sf potesse essere davvero orgogliosa: scrittore maturo, intelligente, letterariamente raffinato, Sturgeon riusciva a trasportare nelle sue storie tutta la sua possente sensibilità interiore e a coinvolgere emotivamente il lettore con una intensità unica. Questa deliziosa «novella» è un tipico esempio delle sue enormi qualità: una piccola gemma finalmente ripescata dall’oblio e dai tempi d’oro di «Galaxy».

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Vacillò in piedi. Appena due centimetri più in alto della sua testa c’era l’architrave di una porta, rettangolare e intagliata in quella che sembrava roccia scintillante. Al di là di essa si apriva un cielo verde pallido, alieno, in cui stava sorgendo l’alba.

Si girò, e tutto ciò che vide alle sue spalle fu una pianura purpurea, fitta di spaccature e crepacci, dalla quale si levavano piante verticali simili a grotteschi cactus.

Attraversò la porta, e dopo aver fatto appena sei o sette passi il territorio desolato scomparve bruscamente. Davanti a lui si stendeva ora un dolce panorama ondulato, con un filare d’alberi che seguiva le curve sinuose di un fiumiciattolo. Oltre il corso d’acqua c’erano dei campi — uno marrone, uno giallo, uno verde pisello — e visti in distanza apparivano lisci e regolari come un tappeto. Alla sua destra si levava una catena di montagne, una delle quali dalla sommità così abbagliante che gii ferì lo sguardo. Riconobbe il riflesso dell’alba sulla neve. A sinistra c’era una grande vallata cespugliosa. L’aria era frizzante, ma si stava scaldando in fretta.

Restò fermo dov’era e ne inalò una profonda boccata, cercando di mettere ordine nei pensieri; poi vide poco più a destra un macigno grosso quanto lo scranno del Privato. Su di esso stava seduta una ragazza con i capelli d’oro e dagli occhi strani. Indossava un leggero abito a un pezzo stretto in cintura, che bastava a rivelare più forme femminili di quante Roan ne avesse mai visto, e teneva ambo le mani intrecciate su un ginocchio delicatamente abbronzato. I suoi piedi erano nudi e rosei, imperlati di goccioline di brina.

La bionda sconosciuta gli diede il benvenuto con una risata allegra, si alzò e venne verso di lui a passi leggeri. — Vieni con me — disse.

D’impulso Roan si ritrasse, nascondendo le mani nude dietro la schiena. Ma con un rapido movimento lei gli passò un braccio attorno e lo prese per mano.

— Andiamo su per di qua — canterellò la sua voce. E prima che Roan si fosse ripreso dalla sorpresa lei lo stava già conducendo con sé.

Seguendola per il sentiero in salita le sfiorò con una guancia una spalla nuda. Annusò il suo profumo, sentì l’odore dolce del suo alito, e roteò gli occhi piegando quasi le ginocchia per l’emozione. Un braccio morbido fu per un attimo intorno alle sue spalle, e lei rise ancora.

— Va tutto bene, è soltanto un sogno — gli disse.

— Un so… — lui tossì. — Un sogno?

— Hai sete? — La ragazza allungò una mano, e lui trasalì violentemente quando un calice le apparve fra le dita. — Ecco, per te.

Lui lo prese, esitò, poi lo portò alle labbra. Immobile lei restò a osservarlo, sorridendo. Per pudore Roan le volse le spalle prima di bere. Il liquido era di un arancione brillante, freddo, con un delizioso sapore frizzante dolce-amaro. Schioccò le labbra e si volse, porgendole il calice con fare impacciato.

— Gettalo via — disse lei.

— Gett… cosa?

La ragazza gli mimò il gesto. Ubbidiente lui scaraventò l’oggetto dritto all’insù. Lo vide scomparire.

— Va meglio? Vieni, tutti ti stanno aspettando.

Con gli occhi ancora fissi nel punto dove il calice era svanito Roan disse: — Voglio tornare a casa mia.

— Non puoi. Non finché il sogno non sarà finito.

Lui abbassò le braccia e agitò le mani, facendo in modo che i polsini ricadessero a nasconderle. — Devo tornare a casa — disse, sconsolato.

— Perché?

— È solo che io… — Con un sospiro di desiderio si girò a guardare la porta. Quando tornò a voltarsi la ragazza era sparita. E d’un tratto anelò disperatamente che fosse ancora con lui. Fece un passo avanti.

Bau! — gridò lei, con la bocca che gli sfiorava la nuca.

Roan girò su se stesso, e la ragazza era lì. — Dov’eri?

— Ero qui… ero là! — Detto questo scomparve, e un attimo dopo si rimaterializzò alla sua destra.

— Ti prego — balbettò lui, — non farlo più. E lascia che io rifletta tranquillamente, solo un minuto.

— Va bene. — La bionda saltellò via fra le piante, raccolse un bucaneve, quindi uno strano fiore verde e purpureo, vi aggiunse alcune felci e tornò verso di lui con le dita agili che danzavano attorno ai gambi. Ripulì i fiori formando un minuscolo mazzolino tondeggiante, annodò gli steli e se lo infilò con mossa esperta fra i capelli d’oro.

— Ti piace?

— Sì. — Roan distolse lo sguardo, ma poi fu costretto a osservarla ancora. — Perché non tieni le braccia coperte? — barbugliò.

— Noi indossiamo ciò che vogliamo, qui.

— Qui dove ?

— È come un altro mondo. — A quella frase Roan guardò verso la porta. — Sarebbe inutile — lo avvertì lei. — Adesso là non c’è niente se non tenebra. La via d’uscita è un tempo, non un luogo. Ma non temere: quando verrà il momento tornerai indietro.

— E quando?

— Per quante ore dovevi dormire?

— Quarantott’ore, anche se non ho mai…

— Forse starai qui per tutto questo tempo. Chi può dirlo?

— Sei… sei certa che non resterò più a lungo?

— Certissima, sicuro. E adesso come ti senti?

Lui ebbe un sorriso timido. — Bene. Va tutto bene.

La ragazza lo prese per mano e cominciò a camminare, cosicché Roan non poté far altro che seguirla. Educatamente cercò di farsi lasciare, ma la stretta delle dita di lei era salda e il suo debole tentativo passò inosservato. Una risatina maliziosa, un rossore, il minimo cenno di pudico imbarazzo in lei, e Roan avrebbe trovato quel contatto insostenibile.

Ma lei era così a suo agio che la reazione istintiva di Roan si bloccò. E chiacchierava con tale vivacità, costringendolo a rispondere, distraendolo da ogni altro pensiero, che se anche lui avesse trovato le parole per ripeterle di lasciarlo andar via non avrebbe avuto il tempo per pronunciarle.

— Tu sei venuta nel mio cubicolo — le disse, senza fiato, mentre lei lo faceva affrettare giù per un pendio.

— Oh, sì… più spesso di quel che credi. Ti ho guardato quando dormivi. Avevi un’aria così buffa. C’è un tanagra! — S’arrestò a metà di un passo. Qualcosa fluttuò dal suo volto luminoso all’uccello che s’era alzato in volo e tornò indietro. — Sono andata a cercarti anche in ufficio. È tutto così severo e cupo, là dentro. E c’è tanta solitudine. Ma tutti voi siete gente solitaria.

— No, che non lo siamo!

— Aspetta che finisca il sogno e non la penserai più così. Vuoi vedere una magia? — Si chinò su un cespuglio e protese le sue lunghe dita sulle sottili foglie spinose. Tutte si chiusero come piccoli pugni verdi.

— Perché sei venuta a cercarmi?

— Perché tu eri pronto a domandare.

— Domandare cosa?

Lei parve non ritenere necessaria una risposta. Lasciò la sua mano e saltellò via come una cerbiatta, una volta, due volte, poi un lungo balzo che la portò oltre un torrentello. Lui lo attraversò goffamente a guado, inzuppandosi le scarpe da letto.

Quando la raggiunse, lei gli appoggiò una mano sul petto. — Ssssh!

Nel vento vibrava una voce umana, fissa su un’unica nota cristallina; ad essa se ne aggiunse una seconda, in chiave di basso; poi una terza dolce e da contralto, ed esse si fusero in un accordo musicale. Quindi le tre note cambiarono, altre salirono di volume pian piano e nell’aria si levò un canto corale morbido come l’aurora, i cui colori si mescolano con tale armonia che il loro brillante effondersi affascina lo sguardo.

— Come ti chiami? — chiese d’un tratto lui.

— Quale nome credi che mi si adatterebbe meglio?

Fiore! — fu il suo ansito, mentre gli strani istinti che emergevano in quel sogno rivendicavano se stessi. E di colpo si sentì libero dall’imbarazzo di cui le usanze avevano rivestito quella parola.

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