La ragazza si avvicinò, a seno nudo, e si piegò su di lui, mettendo un ginocchio fra le sue gambe. Gli scompigliò i capelli e lo baciò con delicatezza. Weiss appoggiò il bicchiere e accarezzò la sua pelle morbida e liscia. Quel contatto lo turbò sin nel profondo, ma subito la sentì sussurrare: «Ehi, dove sei con la testa?» La ragazza gli sollevò il mento con un dito fino a incontrare i suoi occhi. «Ti voglio qui con me.»
Weiss la fece sedere in grembo, posò la faccia sul suo busto e si lasciò accarezzare, affondando il viso in quella morbida oscurità.
«Ecco, adesso ci sei», disse la ragazza, senza smettere di toccarlo.
Si staccò per un attimo e, in piedi di fronte a lui, si sfilò le mutandine. Weiss guardava il ciuffo di peli ricciuti fra le gambe, peli neri, nessuna traccia di rosso.
E pensò: avrebbe dovuto comprarsi una parrucca.
Improvvisamente, il suo cuore indurito iniziò a battere più forte. Quella era esattamente la prima cosa che una donna faceva quando voleva nascondersi: cambiava forma e colore ai capelli. Ma Julie Wyant non avrebbe voluto tagliare i suoi, o tingerli. Se avesse voluto nascondersi, se voleva far credere di essere morta e poi scappare, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato comprare una parrucca.
I suoi occhi stanchi scintillarono mentre guardava i peli scuri della prostituta. Qualcuno doveva pur ricordarsi di una donna dai capelli così belli che comprava una parrucca, anche ora, dopo mesi. Era una traccia.
La ragazza gli tese una mano; lui la prese, si alzò pesantemente dalla poltrona e vide se stesso correre su per le scale, aprire la porta con un calcio…
La prostituta lo condusse in camera da letto.
Finora ho cercato di rimanere ai margini di questa storia, perché so che le mie disavventure giovanili non possono competere con la vicenda che sto narrando. Ma, per ragioni che diventeranno chiare fra poche pagine, devo fare una breve interruzione e raccontarvi l’istruttiva storia del mio primo «caso».
Avevo ottenuto l’incarico di assistente di Sissy Truitt come ricompensa per il mio contributo alla «soluzione» del caso della vergine spagnola. Quello di cui dovevo occuparmi con Sissy era il processo di Theodore Strawberry, un ventiseienne che non ispirava alcuna simpatia, anzi. La foto segnaletica rimandava l’immagine di un individuo dallo sguardo malevolo, la fronte piatta, una massa di capelli unti e diritti. Il nostro cliente ammetteva di essere un drogato e aveva precedenti per furto. Questa volta, però, era stato accusato di aver sparato nella schiena a uno studente di Stanford mentre cercava di derubarlo vicino a un bancomat. Bill Mars, questo il nome dello studente, un apprezzato giocatore di football, era rimasto su una sedia a rotelle. I genitori di Theodore avevano richiesto l’intervento legale della Jaffe Jaffe, lo studio sopra l’Agenzia, e quindi il caso era arrivato a noi. Dovevamo controllare i testimoni e confermarne la deposizione. E in questo io dovevo dare una mano.
Eccitato all’idea della nuova esperienza, quella mattina passeggiavo davanti alla porta di Sissy in sua attesa. Quando arrivò, rise in quel modo materno che solo lei sapeva avere. Le presi di mano i libri e le pratiche che portava per permetterle di aprire la porta e, mentre si chinava a inserire la chiave, indietreggiai per godermi lo spettacolo.
Come ho già detto, Weiss andava matto per Sissy, che di certo era fantastica, ma secondo me c’era anche qualcosa di strano in lei. Quel vestirsi da scolaretta, con le gonne a pieghe e i cardigan. E poi quel calore, quella gentilezza, quell’atteggiamento materno, a volte sdolcinati e quasi soffocanti. Ero pronto a scommettere che poteva rivelarsi una nevrotica, a tu per tu, eppure devo confessare che la trovavo assai attraente. Aveva dieci anni più di me, forse di più, ma aveva i capelli biondi e i lineamenti delicati, gli occhi azzurri e pieni di comprensione, la voce suadente… Ero un bambino a cinquemila chilometri da casa e — che posso dire? — la desideravo disperatamente.
Così, mentre eravamo chini sui dossier aperti sulla scrivania, con le teste vicine, respiravo a fondo il suo profumo. E, tutte le volte che i nostri sguardi si incrociavano, cercavo in ogni modo di farle capire quanto disponibile fossi a diventare il suo giocattolo in cambio di una telefonata e, al limite, del costo del taxi per tornare a casa.
«A parte la vittima, il testimone oculare è uno solo», stava dicendo Sissy in un sussurro provocante. «Ma è molto attendibile. Si tratta di un sacerdote cattolico, il reverendo Reginald O’Mara.»
Risi, veramente divertito. « Quel Reginald O’Mara? Il fratello del governatore?»
«Proprio lui. Dirige un centro per adolescenti da quelle parti e stava tornando a piedi in parrocchia, quella sera, e dice di aver visto tutto. È lui che ha chiamato la polizia con il cellulare.»
La guardai negli occhi, incredibilmente belli e comprensivi.
«Un prete», ripetei, «il fratello del governatore, uno che ha ricevuto una serie di riconoscimenti per il suo impegno con i ragazzi in difficoltà, è testimone contro il nostro cliente, ladruncolo drogato, che avrebbe sparato a un universitario inchiodandolo a una sedia a rotelle… scusa, ma cosa ci rimane da fare?»
«Cercare elementi per screditare il testimone, caro il mio sciocchino», fu la risposta di Sissy.
Risi ancora, poi mi fermai di colpo. «Me lo stai chiedendo seriamente?»
«Anche un prete può mentire, mio caro, di chiunque sia fratello. E può anche commettere errori. Il nostro lavoro consiste nell’assicurarci che la giustizia faccia il suo corso in modo corretto, svelando eventuali imbrogli e false testimonianze.»
Non seguii molto di quello che disse dopo «mio caro», che, pronunciato dalla voce calda di Sissy, stava penetrando nel mio essere più profondo e insinuandosi sempre più in basso. Tornai quasi volando al mio computer, per iniziare le ricerche che noi investigatori definiamo «preliminari».
Esse portarono esattamente a ciò che si poteva presumere: niente. Nessuna accusa, nessun arresto o bancarotta, nessun contatto sospetto. Nessun problema con le banche, la polizia o altre istituzioni. Il fratello del governatore si era laureato a pieni voti a Yale e poi era entrato in seminario. Il suo lavoro con i diseredati aveva ottenuto riconoscimenti in città, in tutto lo stato e oltre: era stato persino a stringere la mano al presidente. Era fonte di orgoglio e popolarità riflessa per il fratello governatore, a cui dava consigli per quanto riguardava i poveri e i rapporti con la Chiesa. Quel prete sembrava il braccio destro di Dio, soprattutto se paragonato al nostro cliente, conclamato esponente di quella che in gergo legale chiamiamo feccia umana.
Ritornai da Sissy verso l’ora di pranzo, con lo sguardo del cane che aspetta paziente un osso dal padrone.
«Puoi dire al nostro cliente di farsi portare il pigiama di ricambio», le dissi. «Non credo che tornerà a casa molto presto.»
Piegò la testa e rise in modo amabile; poi mi sfiorò la guancia con la mano fresca. «Da bravo, controlla la sua testimonianza sui fatti», disse, «poi scrivi un rapporto per gli avvocati.»
Tornai, con tutta la disinvoltura che riuscii a trovare, alla mia scrivania.
La testimonianza del reverendo O’Mara era — come previsto — un modello di semplicità e chiarezza. Aveva guidato gli allenamenti di pallacanestro al suo centro fino alle 21.30 e si era poi avviato per tornare in parrocchia a piedi, una lunga passeggiata che rientrava nelle sue abitudini. Intorno alle 22.30 si trovava in Pine Street, vicino a Nob Hill. Lì aveva assistito alla rapina. Si trovava sull’altro lato della strada, ma aveva visto perfettamente il nostro Strawberry alla luce di sicurezza del bancomat. Lo descriveva come un tipo alto e di carnagione chiara, in giacca mimetica, con il naso rotto, una chiazza pelata e un’andatura claudicante. Mars, che dava la schiena al suo assalitore, gli aveva passato il portafoglio da sopra la spalla. Strawberry l’aveva esaminato, aveva imprecato e sparato due colpi nella schiena del ragazzo, per poi scappare via e svanire nel buio. Il reverendo O’Mara l’aveva riconosciuto senza esitazione tra i sospetti che gli erano stati mostrati alla centrale. Era venuto fuori che il nostro cliente era già stato arrestato due volte per rapina a mano armata ma aveva patteggiato, riuscendo a farsi ridurre l’imputazione a un reato minore. Questa era la terza volta, però, e aveva sparato: era destinato a invecchiare in galera, se gli avvocati non trovavano una scappatoia. E, in cuor mio, speravo proprio che non la trovassero.
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